Tag: Lucia Marchitto

  • Liliana e i ritagli di giornale

    È stata tutto il tempo del racconto di Silvana molto attenta e partecipe, pronta a intervenire quando l’amica non ricordava bene, ora che è arrivato il suo turno, irrompe dicendo:

    Mi chiamo Giovanna, ma tutti mi conoscono come Liliana…
    e poi si blocca, si passa le mani nei capelli, le fa scorrere sul viso, appoggia il braccio sul tavolo e inclina sopra la testa: Non mi ricordo! – dice
    Forse, prima che io arrivassi, aveva rielaborato tutta la vita, tanto da far accumulare i ricordi, che ora sono tutti lì che lottano e si ammassano bloccandone l’uscita. La rassicuriamo in coro, tutte e tre:

    Succede, succede a tutti, non ti preoccupare! –
    Mi fa tenerezza questa donna che sembra così fragile, ma qualcosa mi dice che invece non è così, che è una donna forte e coraggiosa, forse lo leggo nel suo sguardo, non saprei.
    Nata a San Polo nel 1937, in una casa vicino alla salumeria e all’edicola con un via vai di camion, proprio dietro il bar della pesa, in fondo dove c’era il campo di bocce, quella era la sua casa:

    Insomma, la mia! Non era di nostra proprietà però era La Mia Casa!
    Lo dice marcando le parole mia e casa, perché la casa non è di chi la possiede ma di chi la abita e la cura, dentro ci sono le radici di chi vi è nato e cresciuto.
    All’ingresso c’era un grosso cancello che permetteva il passaggio del camion proprietà del padre che lo usava per trasportare la sabbia. Nel parlare del padre la sua voce si riempie di tristezza dicendo che morì all’età di soli 37 anni. Ricorda molto bene la notte della sua morte. Era il 15 aprile del 1950, il giorno dell’alluvione: il Garza aveva rotto tutti gli argini, allagando la statale e riversandosi nelle cave, lo straripamento era iniziato dove c’è la scuola di Santa Maria di Nazaret, aveva invaso la campagna circostante, dove c’erano le cascine Masserdotti, il Miglio e la Scagnella, vicino alla casa cantoniera, lì si incontrano il Naviglio e il Garza, (1) poi il Naviglio va in via Ponte. Suo padre era rimasto bloccato sul lato opposto della via San Polo, non riusciva ad attraversarla tanta era alta l’acqua e forte la corrente:

    El me disiia: appena va via l’acqua vegne de lì! (Lui mi diceva: appena va via l’acqua vengo lì!)
    Liliana non ricorda se l’acqua fosse entrata anche in casa, cosa molto probabile visto che abitavano a piano terra, i suoi ricordi sono focalizzati sul padre che riuscì a entrare in casa soltanto a notte fonda, poi mentre stava giocando con sua sorella chiamò la moglie dicendole di prendere la bambina che lui non si sentiva bene e nel giro di mezz’ora era morto. Sua madre aveva solo trentadue anni e non si è mai risposata:
    Una volta, le donne restavano vedove e finiva lì!
    Liliana frequentò le elementari dalle suore di Maria Bambina che oggi si chiama scuola Maria di Nazareth. Fece soltanto il primo anno del professionale e poi cominciò subito a lavorare.
    Nella casetta dietro al bar della Pesa abitavano oltre a sua madre e sua sorella, la nonna e la famiglia dello zio che aveva cinque figli, stavano molto stretti e la madre, ormai vedova, decise di trasferirsi insieme alla nonna. Trovarono alloggio al secondo piano di una palazzina che da un lato si affaccia sullo stradone e dall’altro sul Garza (2), sotto abitava la famiglia Lussignoli. Era una casa isolata in mezzo ai campi e la proprietaria possedeva tutti i terreni che c’erano nei dintorni, su uno di questi è sorto il Centro Commerciale Margherita D’Este. Dopo alcuni anni, si trasferirono al piano di sotto.
    Nel ‘65 si sposò e andò ad abitare vicino all’ufficio postale con la madre, la nonna e i due figli. Anche da sposata continuò a lavorare:

    Ho sempre lavorato, sempre. Sono sempre andata a servizio da una signora all’altra, ho lavorato un po’ anche in ferriera a fare le pulizie, e non ho ancora smesso di lavorare, faccio la nonna e corro sempre dietro agli altri, per dire!
    Il marito lavorava alla Legnami Pasotti dove si facevano le casette in legno per i terremotati: Tutti i terremoti li ha fatti mio marito! Pure il Friuli, il Vajont, è stato via anche all’estero, nei Paesi Arabi, sempre per le casette! Ho anche tutti i ritagli di giornali, dove c’era mio marito, naturalmente!
    Si legge tra le parole l’orgoglio per quel marito falegname che portava la sua opera per il mondo, lì dove ce n’era più bisogno. A volte Liliana seguiva il marito lasciando i figli con la nonna, stava via due o tre giorni non di più, e poi tornava, tra l’altro lei aveva preso la patente e il marito no, per cui ogni tanto lo doveva portare sul luogo di lavoro. Telefonava al marito ogni quindici giorni ed era un’impresa perché non aveva il telefono e quando poi andò ad abitare al villaggio, dove tuttora abita, aveva il duplex: per una linea c’erano due proprietari e se telefonava uno l’altro non poteva farlo. Al Villaggio si trovò subito bene, ed era bello e calmo:

    Come calmo è ancora adesso! –
    Dopo tante fatiche finalmente aveva una casa tutta sua che suo marito arredò costruendo i mobili.

    Mio marito faceva di mestiere il falegname, infatti in casa mia non c’è niente di comprato, è tutto fatto da lui!
    Nonostante quel mestiere del marito condizionasse tutta la sua vita, che non doveva essere per niente facile dovendo crescere da sola i figli e nello stesso tempo lavorare a sua volta, Liliana è orgogliosa di tutto ciò che il marito ha fatto, tanto da conservare gli articoli dei giornali, tanto da tenere con cura amorevole tutti i mobili della sua casa che in ogni momento della giornata le ricordano l’uomo amato.

    Oggi non frequenta centri di aggregazione perché preferisce stare a casa sua, si è trovata e si trova molto bene al Villaggio:

    Dopo dipende anche da noi, se ci sono i rompiscatole … ci sono dappertutto, abbiamo qualcosa anche noalter!
    Intanto Gabriella ha fatto il caffè, il profumo riempie la stanza, sono contente le nonne, lo sono anch’io. Ci avviamo alla macchina e Gabriella mi indica le sedie e il tavolo dove le nonne d’estate fanno due chiacchiere, ammiriamo il giardino di Silvana, passiamo davanti alla casa di Paride, saliamo in macchina e Gabriella mi porta a far vedere i luoghi dove le nonne hanno vissuto, andiamo fino alla cascina Loc scatolott, negli occhi di Gabriella si legge la nostalgia, lì ha vissuto fino ai dodici anni, lì c’è tutta la sua infanzia. Passiamo davanti al palazzo del Mago e facciamo ritorno al Margherita D’Este.
    Ringrazio questa donna così generosa e disponibile e penso che a guardarlo bene il mondo ci si rende conto che è pieno di bellezza.

    (1) Dall’enciclopedia Bresciana: nel 1909, per evitare i continui allagamenti della strada e l’impossibile esercizio della tranvia, gli abitanti di S. Polo costrinsero l’amministrazione provinciale a trasportare a quota più alta la sede stradale e la tranvia per un tratto creando una golena di sicurezza fra la strada e il Naviglio-Garza. Ma essendo rimasta la golena di proprietà privata venne coperta in gran parte da abitazioni per cui, restringendo sempre più lo scolo delle acque, gli allagamenti (fra cui grave quello del 1930) continuarono.

    (2) Enciclopedia Bresciana: Nel lontano 1947, quando il Garza scendendo dai monti di Nave passava entro la città e poi andava a gettarsi nel Mella in territorio di Bagnolo, si decise di deviarne il corso facendolo passare da S. Polo, Borgosatollo, Castenedolo e quindi, con lo scopo evidente di portare acqua sui terreni della brughiera in cui, per la siccità dei periodi estivi, si perdeva buona parte dei raccolti.

  • Il ricamo di Silvana

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” a cura di Lucia Marchitto


    C’è un venticello dolce che accarezza tigli, olmi, querce e platani, sopra i rami si posano merli e passeri che cianciano allegri, sulle ciclabili passeggiano donne, uomini e cani, nel Centro Mela c’è una lunga fila di persone che aspetta il turno davanti alla forneria.
    Non ho fretta, sono in anticipo all’appuntamento, perciò osservo con calma il quartiere. Nonni portano a spasso un bimbo nel passeggino, incontrano qualcuno che si ferma a parlare e a spiare il bambino che forse dorme, o forse spalanca gli occhi sulla magia di un giorno di primavera.
    Arrivo al Centro Margherita d’Este: è incredibile come questo centro, che era quasi morto, quasi abbandonato, sia resuscitato! Gente che va e che viene. Indaffarate o pigre le persone lo attraversano, mi piace osservare i loro movimenti, i loro visi, il modo di vestire, i clienti seduti ai tavoli della “Sforneria” che sorseggiano il caffè, la vita che scorre e si racconta attraverso i gesti, in questo posto, che è il mio posto perché molte delle persone che mi passano davanti le riconosco.
    Aspetto con il libro in mano, che porto come segno di riconoscimento per la persona da incontrare, infatti, mi riconosce per questo, perché non ci eravamo capite, io intendevo aspettarla all’entrata dalle scale mobili lei a quella opposta.
    Gabriella è una signora alta, bionda, dice subito che le due nonne mi stanno aspettando, stanno aspettando la giornalista:

    Non sono giornalista! – dico anche con una certa ansia, non vorrei mi si accusasse un giorno di abuso della professione! – Faccio delle interviste, che poi sono solo quattro domande, per stimolare il racconto della vita nel quartiere delle persone, per indirizzarle verso il tema che intendo sviluppare, sono come dire, una guida, nient’altro! –
    Sorridiamo entrambe, è una persona gentile, disponibile, anche lei abita in quartiere ed è nata in una cascina del centro Storico di San Polo, mi sta portando a casa di sua madre che, insieme alla vicina, è in attesa e sono anche un poco agitate le nonne, hanno paura di non ricordare. Quando arriviamo si affacciano subito sulla porta, l’una alta, l’altra un poco più bassa, l’una dalla carnagione quasi diafana, l’altra nera di capelli, in piedi sulla soglia hanno una espressione di curiosità mista a timore sul viso, appena ci sediamo intorno al tavolo, prorompono in coro, dicendo che a volte non ricordano bene le cose. Silvana e Liliana questo il loro nome, Silvana è la padrona di casa, Liliana la sua vicina e sua amica di sempre: si conoscono da quando erano bambine, d’altra parte sono nate entrambe nel 1937 e hanno vissuto prima a San Polo Storico e poi qui al villaggio “La famiglia”.
    C’è molta luce nella stanza, una stanza molto curata, accogliente. I quadri alle pareti lasciano spazio, non soffocano, danno una pennellata di colore al bianco della parete, e tutto è armonia di forme come quel piccolo vaso con una struttura a clessidra posto sotto la grande vetrata della finestra, la luce che cade all’interno della stanza non abbaglia e si intravede il verde dei giardini.
    Silvana e Liliana parlano contemporaneamente, l’una sull’altra. C’è un sacchetto appoggiato sul tavolo, Liliana lo apre e tira fuori un libro mostrandolo con orgoglio, dicendo che lo hanno scritto due suoi conoscenti, vorrebbe prestarmelo, ma io lo conosco bene avendolo già preso in prestito dalla biblioteca. Dopo aver spiegato brevemente cosa intendo fare, dopo averle rassicurate sul fatto che non ha importanza se non ricordano tutto, inizio l’intervista alla padrona di casa, la Signora Silvana.
    C’è un attimo di silenzio, gli sguardi sono tutti per lei, è solenne l’attimo prima del racconto di una vita che in questa casa vive delle piccole cose, dei piccoli riti quotidiani oggi interrotti dal mio arrivo, arrivo che apre il cassetto dei ricordi.

    Nel dire la sua data di nascita, il 1937, aggiunge subito che il primo ricordo è legato alla guerra, era una bambina e frequentava la scuola elementare, le lezioni si tenevano sotto il portico del “palazzo del Mago”, tutti insieme i bambini, dai sei ai dieci anni, seguivano le lezioni seduti sulle panche pronti a scappare appena suonava l’allarme.
    La sua famiglia era composta dai genitori e cinque figli e quindi occupavano diverse stanze al piano superiore della cascina in cui abitavano. Un giorno arrivò un gruppo di tedeschi con delle camionette piene di roba che, con i mitra spianati, li obbligò ad ospitarli, occupando le loro stanze. Si fermarono a dormire e a mangiare per tre giorni e tre notti durante le quali la sua famiglia dormì su dei materassi poggiati per terra in cucina. I tedeschi avevano sempre il mitra in mano e a turno uno di loro controllava con il binocolo lo stradone. Con i bambini erano gentili e davano loro anche della cioccolata. Con l’arrivo degli americani i tedeschi scapparono. Silvana dice che non capivano quando parlavano i tedeschi, d’altra parte non conoscevano la lingua e poi la sua famiglia e tutti gli altri abitanti della cascina parlavano solo dialetto.
    “Ridono insieme le due nonne:

    Anche adesso parliamo sempre in dialetto! Povere nonne lasciateci qualcosa anche a noi!
    Come a dire: lasciateci almeno parlare la nostra lingua! Poi si illuminano e sempre in coro affermano:

    Ora ci sono anche quelli che scrivono i libri in dialetto! E col riso tornano i bei ricordi, perché dice Silvana:

    Non c’è stata solo la guerra, ma anche cose belle!
    I genitori erano contadini e si erano trasferiti da Castenedolo a San Polo per lavorare presso la cascina “loc scatolot” (luogo scatolotto), si trovava in via Cadizzoni e intorno c’erano altre cascine: quella dei Lodrini, quella dei Bonetti e il Miglio. Si coltivava frumento, granturco e erba per le mucche, nella cascina vi abitavano 13 famiglie, ogni famiglia gestiva i propri animali sia quelli da cortile che i maiali. Da ragazzina andava a prendere l’acqua alla fontana e dava, insieme ai suoi fratelli, una mano ai genitori, perché allora non si stava mai con le mani in mano:

    Quel momento che si giocava, si giocava e dopo c’era sempre qualcosa da fare, dare una mano alla mamma anche in casa, c’era da lavare, da stirare, a me piaceva ricamare e mi sedevo a ricamare, allora mia mamma mi lasciava il tempo.
    La vita in mezzo a tutte quelle famiglie era bella perché erano molto uniti sia gli adulti che i bambini, c’era molto spazio per correre e giocare magari con una palla fatta di stracci. A volte andavano all’oratorio che era vicino alla chiesa nuova, facevano anche il cinematografo ma lei ci andava poco perché non aveva i soldi per comprare il biglietto.
    Vedi n o t a 1
    A dodici anni Silvana andò dalle suore in via Diaz per imparare a ricamare, ci andava a piedi, a volte da sola, a volte erano in due o tre, perché non tutte ci tenevano al ricamo, la sorella invece, imparò a fare la sarta. Dice con orgoglio:

    Il ricamo mi è sempre piaciuto e ho ricamato tutta la dote dei miei figli e delle mie sorelle!
    Guardo la cartina su Google: da via Cadizzoni a Via Diaz ci sono più di quattro chilometri! Ci vuole una certa dose di volontà e anche di passione per fare otto chilometri al giorno a piedi per imparare il ricamo! E nel pensarlo ho come l’impressione che Silvana non abbia soltanto ricamato corredi ma la vita stessa, ne ha tracciato il disegno con un punto rigoroso e insieme fantasioso.
    A quattordici anni cominciò a lavorare in uno scatolificio in via Cremona, ci andava in bicicletta portando nella borsa qualcosa da mangiare:

    Mica tanta roba, uno uovo magari al burro, oppure si andava a prendere dieci lire di mortadella, eravamo tutte così!
    Sul lavoro si trovò subito bene, nonostante allo scatolificio tenessero le ragazze solo fino ai diciotto anni lei vi rimase fino a quando si sposò.
    Dopo il lavoro ricamava. E forse dalla finestra guardava il suo ragazzo e sognava. Il suo ragazzo, che poi divenne suo marito, era il figlio dei proprietari dei terreni che i suoi genitori tenevano a mezzadria, erano cresciuti insieme, insieme avevano giocato nel cortile della cascina e in cascina continuarono a vivere anche dopo il matrimonio, vissero porta a porta con i genitori e con i suoceri per molto tempo ancora.
    Negli anni molte famiglie se ne andarono altrove perché la terra era poca, rimasero nella cascina soltanto la sua famiglia, quella della suocera e quelle di tre cognati, poi uno di questi andò a lavorare in ferriera, un altro fece il carrozziere, e suo marito fu assunto alla a2a.
    La costruzione dell’Alfa Acciai fu vissuta dalla sua famiglia e dagli altri abitanti di San Polo come una buona opportunità per i giovani, infatti, uno dei suoi cognati ha lavorato lì per tutta la vita, e come lui tanti altri giovani vi trovarono lavoro.
    Quando fu approvato il progetto per le Case Marcolini3, vicino all’Arici, Silvana e suo marito, che avevano già tre figli, fecero la domanda per acquistarne una e con molti sacrifici riuscirono a comprarla. Seguirono la costruzione passo, passo, facendo anche apportare modifiche nella scelta dei materiali pagando la differenza.
    Quando, finalmente, nel 1972 si trasferirono il complesso era tutto costruito, tre o quattro ditte si erano impegnate nella costruzione e avevano terminato insieme i lavori. Le famiglie invece arrivarono poco alla volta, la sua si trovò subito bene, lei, tra l’altro, fu molto fortunata perché la sua vicina era la sua amica di sempre, quella che ora è seduta a questo tavolo e sta aspettando impaziente di raccontare la sua storia.
    da l’”Enciclopedia Bresciana”: “Solo superati gli anni ’60 S. Polo perde la configurazione ultracentenaria di borgo contadino con la costruzione di abitazioni, fra le quali spicca il villaggio “La Famiglia” inaugurato il 25 settembre 1971”.
    Nel villaggio non c’erano negozi, ma passavano i venditori ambulanti con i loro furgoncini portando ogni genere di mercanzia. Ora ne passa solo uno che vende frutta e verdura.
    Raramente frequenta i luoghi di ritrovo del villaggio, perché le piace molto stare in casa, trova sempre qualcosa da fare anche se è da sola. Spesso passa sua figlia e d’estate si siede a sera nel giardino della sua amica a fare un paio d’ore di chiacchiere. Vicino abitano altre cinque signore della stessa età, sono invecchiate insieme, quindi non sono mai sole. Dice:

    In quasi sessant’anni che sono qua non è mai successo niente, questo è sempre stato un villaggio calmo
    Calma e serena è l’aria che si respira in questa casa.

    Brescia, 25 marzo 2023

  • Paride: novant’anni di storia

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” a cura di Lucia Marchitto


    Controllo l’orologio: sono esattamente le 15.30, appoggiata al muro c’è la bicicletta, è robusta e porta appesi due tasconi grigi, paiono due bisacce, cosa porta Paride lì dentro?
    Paride è il Signore di 90 anni che devo intervistare, sorrido al pensiero che è arrivato in anticipo, un sorriso tenero per gli anni che gli uomini e le donne attraversano e certi anni hanno generato galantuomini, quelli che il rispetto ce lo hanno nel petto e arrivano in anticipo agli appuntamenti.
    Io questo già lo sapevo e fremevo a casa nell’attesa poi disattesa di un altro incontro.
    Ho camminato veloce senza fermarmi ad osservare il mondo, non volevo far attendere un galantuomo.
    Paride è come la sua bici: robusto e robusta è pure la voce e il sorriso.
    La mappa che Luigi, il bibliotecario, ci porta poggiandola sul tavolo, subito si fa materia viva, seguiamo le linee come se fossero rotte di una nave. Il quartiere è sul tavolo e Paride si appresta a descriverlo attraverso le vicende della sua vita, nell’apprestarsi fa una dichiarazione solenne, per avvisarmi, per mettermi in guardia, per dire: io racconto quello che ho visto, come l’ho visto io, ma non è detto che sia la verità perché:

    Il principio fondamentale è che noi non diciamo la verità, perché la verità è una parola grossa! Ce n’è più di una!
    Detto ciò, si presenta:

    Mi chiamo Paride A., ho 90 anni e sono nato nel febbraio del ‘34 a Leno, ora abito in via Revere a San Polo – Brescia
    Sorrido pensando che gli anni sono 89, forse lui pensa allo stesso modo di mio padre che diceva: “Appena li compi gli anni non ci sono più, sei già in quello successivo”.
    Nella presentazione formale e composita c’è già un disegno, una traccia del suo passato, di quegli anni ‘30 del 1900. Gli chiedo chi è stato a dargli un nome così singolare, importante anche.

    È stato mio padre che aveva un amico carissimo a cui aveva promesso che al primo figlio avrebbe dato il suo nome, quel suo amico che si fece prete e che morì sotto i bombardamenti del ’45 .
    Aveva due anni quando la sua famiglia si trasferì da Leno a San Polo che allora faceva parte della frazione di Sant’Eufemia (1), si stabilirono presso la cascina löc de Mez (località di Mezzo),
    Nel dirlo riprende il quadro che incornicia la mappa di San Polo e insieme cerchiamo la cascina, troviamo la Bredina che era nei pressi, ma non la sua. Inutilmente le dita seguono le linee delle vie, delle rogge e delle cascine, la sua non è segnata.
    In quella cascina vi rimasero soltanto due anni perché quando pioveva la vicina roggia esondava e l’acqua entrava in casa dalle finestre basse. I suoi dopo una o due volte che la casa si allogò presero e se ne andarono. Suo padre era un commerciante, perciò spostarsi non era un problema. Tocca ancora la cartina, segue il rigo di una strada:

    Mi ricordo che lo stradone Brescia – Mantova era in terra battuta, fu asfaltato nel 36/38. Ero figlio unico, poi venne una sorella e più tardi capitò un altro maschio.
    Ride di gusto quando afferma di essere figlio unico e a me viene in mente una canzone di Rino Gaetano: mio fratello è figlio unico. Continua a dire ridendo che lui ha alterato la sequenza che vuole un numero più basso di figli man mano che le generazioni vanno avanti, perché se i suoi ebbero tre figli lui ne ha avuto cinque.
    Si placa la risata, abbassa le palpebre, sta un poco in silenzio e poi riprende il racconto dicendo che dalla cascina si trasferirono a San Polo Storico,

    … e non lo si chiami San Polo Vecchio, per carità!
    lo ripete più volte calcando sulla parola storico. C’erano poche case, erano in cinquecento abitanti compreso il Borgo, era chiamato borgo in senso dispregiativo perché era periferico rispetto al centro. Andò ad abitare a sinistra dello stradone, proprio al centro di quella strada che si chiamava Via Mantova.
    La strada era spesso piena di carretti che trasportavano la sabbia dalle cave alla città. Dice che le cave, come le vecchie cascine, risalgono al 1500, perché fu allora che i veneziani imposero la costruzione di case in muratura al posto di quelle di legno.
    Ricorda quando a sera tornavano i lavoratori dalla città e riempivano lo stradone, era una scia di biciclette! Perché è vero che c’era il tram, ma costava!
    Insieme ai suoi compagni giocava a pallone sullo stradone, quando arrivava una macchina si spostavano. D’altra parte, di macchine ce n’erano solo due: una apparteneva al vinaio e l’altra al tabaccaio.

    Passava anche il tram e lui e i suoi amici ne combinavano di cotte e di crude. Ride a lungo, con gusto, una risata grassa che si stempera a malapena quando racconta che sull’ultima carrozza del tram c’era un dispositivo di fermata eccezionale, lui e i suoi compagni spesso lo azionavano facendo arrabbiare sia il responsabile del servizio, sia gli altri passeggeri.
    Si divertivano anche quando, d’inverno, l’acqua che fuoriusciva dalle rogge gelava formando uno strato di ghiaccio, loro con gli zoccoli andavano a scivolare sul ghiaccio, avevano la suola di legno e sopra una scarpa vecchia, vecchia, che i contadini sapevano costruire.
    Di fronte all’Alfa Acciai, c’era l’asilo e la scuola elementare. Le medie che allora si chiamavano scuole di avviamento professionale erano a Brescia. Soltanto lui e altri due
    fattorie e case padronali, pur senza mai acquistare indipendenza civile dal comune e religiosa dalla parrocchia di S. Eufemia.
    I ragazzi frequentarono la scuola di avviamento professionale ed erano considerati da tutti studenti.
    Dai suoi ricordi non può mancare quello della guerra quando tutte le sere passava Pippo a bombardare e quando negli ultimi due anni delle elementari, nel 1944-45, come suonava l’allarme dovevano correre a casa. Pippo buttava anche giocattoli bomba e i genitori raccomandavano loro di non toccarli. A soli nove anni leggeva tutte le sere il giornale che si chiamava Brescia Repubblicana, perché legato alla repubblica di Salò, era stato chiamato così perché era l’unico modo per poterlo vendere. Poi quando la guerra finì si chiamò Giornale di Brescia. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, ricorda degli articoli che parlavano della fucilazione di alcuni partigiani.
    Nel ‘43 era andato a Montichiari dai suoi zii, faceva il conduttore di oche, tacchini, pecore e qualcosa d’altro, quando un gruppo di tedeschi inseguì e uccise un ragazzo che scappava dentro al furmintù, al granturco.
    Suo padre, sua madre e molta altra gente del posto non erano d’accordo con la politica del Duce, infatti quando arrivarono gli americani nessuno li ostacolò. In due o tre giorni passarono centinaia di camion, jeep e carri armati dell’ottava armata americana. Lui insieme ad altri ragazzini raccoglievano i “mucì” i mozziconi di sigarette buttati dai soldati americani, li spaccavano, prendevano il tabacco e lo consegnavano ai genitori, a chi aveva il vizio del fumo e suo padre era tra questi.
    Un giorno gli americani mitragliarono vicino all’Alfa e ancora oggi si vedono nel cemento del fosso i segni dei proiettili e ogni volta che ci passa vicino li guarda e ricorda.
    Dopo la terza media, un giorno, suo padre lo prese e gli disse: “Andiamo a cercare un posto di lavoro!”. Arrivarono in vicolo del Moro a Brescia, ma il falegname cui voleva chiedere di tenerlo come apprendista era chiuso, allora dato che il padre era un venditore di carta, si ricordò che più avanti c’era un tipografo che lui conosceva e gli chiese: “Poet mia dago un po’ de laurà a mio fiòl?”. Ci lavorò tre anni:

    A gratis! Roba da matti! Li ho pagati quei tre anni anche quando sono dovuto andare in pensione: non risultavano da nessuna parte!
    All’età di sedici, diciassette anni andò a lavorare in una grossa tipografia dove fu assunto regolarmente e più tardi si mise in proprio. Ha fatto il tipografo per tutta la vita.
    Quando si sposò andò ad abitare dove c’era la vecchia Farmacia di San Polo. Ci rimase per quattro o cinque anni poi, negli anni ’70, in cui la crescita demografica fu molto elevata, comprarono una delle case di Padre Marcolini, vicino a via Arici, lo stesso luogo dove andava a pattinare con gli zoccoli di legno, ed è lì che ancora oggi abita.

    Quando siamo arrivati lì non conoscevamo nessuno, era un quartiere di stranieri, nel senso buono, venivano da fuori, non da altre nazioni, ma da paesi qui vicino, o da Brescia. Per noi che eravamo del quartiere erano stranieri perché non ci conoscevamo. Il termine non era usato nel senso che è usato oggi.
    Io oggi mi diverto con i figli e gli stranieri che abitano vicino a casa mia, una famiglia di egiziani, una di indiani, culture diverse però con la famiglia indiana abbiamo legato subito, con quella egiziana facciamo fatica perché non ha i nostri usi e costumi e mentalità e lui (il capofamiglia) dovrebbe adattarsi al posto dove è e non noi adattarci a lui. Io spero che lui diventi vecchio e che i figli diventino sanpolesi, perché parlano già il dialetto bresciano. Viviamo in tranquillità con gli stranieri di oggi e con quelli che erano stranieri una volta, che poi erano sempre bresciani!
    Ho visto cambiare tutto il quartiere di San Polo, da cinquecento che eravamo siamo diventati quattro o cinquemila. Parlo di San Polo Storico non di questo, dico io, ma non potevano chiamarlo con un altro nome visto che qui era tutto un campo … era tutta terra coltivata! Invece ora va dalla Volta a Sant’Eufemia. Un rebelot che finiss più!


    Ci alziamo, scendiamo le scale chiacchierando, lo lascio alla sua bicicletta, tornando a casa cerco inutilmente di immaginare i ragazzi con gli zoccoli di legno che giocano nei campi vicino alle rogge scivolando sul ghiaccio, ma la primavera mi assedia con il giallo dei prati, le giunchiglie e le magnolie in fiore. Poi giro lo sguardo verso i giardini Borghetti: ragazzi giocano a cricket, ce n’è uno molto alto, mi pare porti un paio di zoccoli di legno, ride, una risata grassa, coinvolgente.

    (1) Dall’Enciclopedia Bresciana: Nella decadenza del Monastero di S. Eufemia (a) sempre più accentuatasi si stanziò nel territorio una classe imprenditoriale particolarmente attiva, formata da nobili ma in maggior parte dalla nuova borghesia, che popolò il territorio di cascine e di imprese agricole. Accanto a permanenti proprietà monastiche ed ecclesiastiche (la cascina S. Antonio, la strada Canonica, il “locale delle monache”, ecc.) sorsero la Cà di Miglio (casa degli Emigli), Cadizzoni (Casa degli Zoni), la Fenarola, la Bora, la Fusera, la Bergognina, la Tirale, il Chioderolo. Cessata nel sec. XV l’attività dell’ospizio e venduto a privati, anche il piccolo borgo sorto accanto ad esso cambiò fisionomia. Accanto alla chiesa nel `500 venne costruita (ora al n. 255 di via S. Polo) una grande abitazione dalle linee cinquecentesche curiosamente chiamata dalla popolazione come “el palass del Mago”. In esso Angelo Cretti ha visto un rifacimento di altre costruzioni risalenti al sec. XIII e seguenti. La chiesa divenne sempre più patrimonio della comunità che la ricostruì ed arricchì per cui S. Polo andò fin dal secolo XV assumendo l’aspetto di un borgo in mezzo ad una campagna sempre più fertile, contrappuntata da dove c’erano altre tre o quattro famiglie affittuarie perché ne era stato modificato l’uso.

    (a) Dal ‘300 inizia la decadenza del Monastero di Sant’Eufemia che verrà chiuso definitivamente nel 1438.

    Brescia 18 febbraio 2023

  • Carlotta ora prende la metro da sola

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” a cura di Lucia Marchitto


    È impaziente, si siede, si alza, si guarda in giro, l’impazienza ha rotto l’aria calma del lungo racconto di Emma, si è infilata come il sole dalla finestra, persino i libri sugli scaffali si sono animati, paiono tutti pronti, in fila come soldatini di piombo per fare la grande parata aspettando la notte, liberi batteranno i piedi, alzeranno la voce, vivranno nel sogno che hanno sognato.
    Quale sogno ha sognato Carlotta? Quale urgenza le fa allungare il collo? Lo sposta a destra, a sinistra, davanti a sé, è impaziente, d’altra parte la pazienza non appartiene ai bambini o agli adolescenti, e lei non è ancora adulta e non è più una bambina, sta sulla soglia impaziente, pronta ad oltrepassarla.
    Carlotta ha dodici anni e riempie col suo nome e col suo corpo lo spazio che qui si fa racconto.
    Carlotta non abita a San Polo ma ci vive, sta con i nonni perché sua madre lavora. Frequenta la scuola media, gli amici e la biblioteca dove ogni venerdì pomeriggio si incontra con la sua amica per chiacchierare e per scegliere i libri da leggere. La sua passione è nata per caso un giorno che la sua amica, che già frequentava la biblioteca, le propose di andarci insieme, ora legge molto, le piacciono i romanzi storici, i gialli, i fantasy, pure la saga di Anna dai capelli rossi che gliela ha regalata suo padre insieme a tanti altri libri, dice muovendo le mani:

    Ovviamente, li scelgo io!
    Nonostante ciò, è arrabbiata con suo padre che è andato a vivere altrove insieme a suo fratello, quel fratello che lei ama molto e di cui sente tanto la mancanza.
    Carlotta ha un animo sensibile, ha un rispetto per l’ambiente e per le cose e si arrabbia quando alcune persone compiono atti incivili come imbrattare i muri della scuola o rubare le sue biro, per il resto si trova abbastanza bene a scuola, soprattutto ora che è alle medie ed è finito il lockdown. Non le pesava il fatto di non essere in classe con i compagni, ma seguire le lezioni on line: quello sì che non lo sopportava! Durante quel periodo ha cambiato anche casa perché quella in cui abitava era troppo piccola e stare chiusi dentro era soffocante.
    Il suo punto fisso è la nonna, a volte passeggiano insieme loro due e il cane ed è anche per questo che conosce bene tutto il quartiere. Ci sono tante cose che le sono successe qui a San Polo.

    Un giorno era con la sua migliore amica davanti all’Euro Spin: “stavamo parlando, io mi ero messa a piangere perché mi stavo sfogando, è arrivata questa signora che non avevo mai visto e si è messa a dirmi che piangerò tutta la vita per cose brutte, mi sono messa a piangere ancora di più, la mia amica cercava di consolarmi in tutti i modi perché io non me lo aspettavo, soprattutto da un adulto, parlare in questo modo ad una bambina di dieci anni! ” Era l’età che avevo quando successe il fatto.
    Stavano sempre insieme lei e la sua amica, si incontravano tutti i giorni, l’accompagnava anche a fare la spesa, poi avevano litigato e dopo avevano fatto pace. Andava anche al gazebo che c’è vicino al campo di bocce e studiava con il suo migliore amico, suo nonno aveva lì l’orto, ha dovuto lasciarlo perché ci vede poco.

    “Qua c’è di bello che se vuoi un luogo per stare da sola ne hai tanti, puoi andare al parco, puoi andare nei campi, fino a poco tempo fa non potevo andare in giro da sola, ora posso prendere la metro da sola ed è una bella responsabilità. A volte andavo a fare i giri nei campi col mio migliore amico e lì ho i ricordi più belli. Era il mio migliore amico poi abbiamo litigato, per colpa sua, ovviamente. Non ci voglio far pace. E poi anche la mia vecchia miglior amica ha fatto una cosa spiacevole e quindi non siamo più amiche. Però adesso ho un’altra migliore amica. “
    Mi pare, ascoltandola, di tornare indietro nel tempo, ai pianti per i cuori infranti, per le amicizie perse e ritrovate, per i segreti da confidare. Quel periodo in cui la vita si spalanca davanti e ci travolge di sogni, passioni, desideri, e delusioni.
    Oggi dice che le è capitata un’avventura: Sono andata fino al Verrocchio perché ho un progetto di teatro, pensavo che fosse oggi, ma mi ero sbagliata, non c’era teatro! Sono andata alla stazione della metro, sono dovuta arrivare fino a Santa Eufemia e poi ritornare fino a qua e non mi era mai successo, ho sbagliato metro!
    Mi piace fare teatro perché ci sono anche alcune mie compagne di classe con cui vado d’accordo. Stiamo imparando un copione, alcune cose sono un po’ noiose, ma stiamo imparando, siamo appena all’inizio. È un testo molto bello, molto fantasioso. Siamo una ventina di ragazzi. È una bella esperienza perché ho conosciuto persone nuove e mi sto facendo nuovi amici e poi ci sono le persone che conosco dalle elementari.
    Questa meravigliosa e tenera e appassionata creatura sta sulla soglia in attesa di diventare adulta, con la sua migliore amica ogni venerdì pomeriggio si inoltrerà tra gli scaffali, prenderà dei libri, vivrà avventure, quanti mondi ancora l’aspettano tra le pagine!

    Brescia, 2 marzo 2023

  • Prefazione al libretto


    “Viaggio in periferia San Polo si racconta” a cura di Lucia Marchitto

    Il bel lavoro di Lucia Marchitto merita un forte grazie per la passione che emerge da ogni riga di questo testo. Per me è stata una splendida sorpresa perché non conoscevo Lucia prima di incontrarla in occasione del progetto “Es(t)ploratori di Cu(ltu)ra. Il possibile è presente”, realizzato in occasione di Bergamo-Brescia Città della Cultura 2023, di cui è Capofila l’associazione Amici della Cascina Riscatto ODV.

    A pieno titolo questo contributo si inserisce fra i “tesori nascosti”, uno dei filoni tematici che insieme a “la cultura come cura” caratterizzano il progetto; e “tesori nascosti”, in realtà ora “svelati”, sono anche le persone le cui intense storie sono qui rappresentate: mi permetto di ringraziarle una ad una.

    Quanta umanità in ognuna di queste storie che rimandano, diciamocelo senza timore, alla ricchezza e dignità presente in ogni persona, in tutte le persone. Serve mettersi in ascolto reciproco, esercitando quella attenzione che è una virtù sempre più rara.

    Grazie Lucia, se volevi ridestare la “meraviglia”, ci sei riuscita pienamente.

    In più testimonianze è stata evocata la necessità di incontrarsi, parlarsi, ascoltarsi e il desiderio di avere luoghi (piazze) in cui poterlo fare. L’esperienza del Covid ci ha fatto toccare con mano, spesso in modo drammatico, quanto siamo legati l’un l’altro e quanto siamo fragili.

    Colgo come molto positivi anche gli stimoli, garbatamente “critici”, nei confronti del Centro Aperto Cascina Riscatto sono inviti a migliorare e a dare continuità alle iniziative messe in atto. Come non essere d’accordo.

    L’anno della cultura ha visto la nostra associazione Amici della Cascina Riscatto Organizzazione di Volontariato fare uno sforzo notevole, chiamando a raccolta ben otto realtà del territorio come partner e tante collaborazioni per offrire oltre 25 occasioni di incontro sia nella cascina che sul territorio di S.Polo. Ringrazio qui tutti, anche i Comitati di Quartiere di tutta la Zona Est e la Biblioteca di S.Polo.

    Si poteva pubblicizzare di più, certo, si potevano fare e si potranno fare tante cose, come no. Teniamo presente che le idee camminano sulle gambe delle persone.

    Le attività di gioco alle carte, le tombole, le feste di compleanno ecc. sono momenti di incontro e condivisione che aiutano tanti a uscire dalla solitudine. Non sono da demonizzare.

    È vero! Oggi “non esistono più gli anziani di una volta”: sono mediamente più istruiti, spesso in buona salute, dinamici, pieni di interessi e di “impegni”; per questi i Centri Aperti Anziani non rappresentano un’attrattiva, a meno che…

    È in atto da tempo una riflessione sulla natura dei Centri Aperti che da “per anziani” potrebbero diventare “per tutte le età” : ad esempio proprio quelli di Bergamo, con i quali ci stiamo confrontando in questo periodo, sono già avviati su questa strada.

    Allora si può immaginare un centro con attività culturali, ricreative, educative e tanto altro. Non lo si può fare da soli.

    È desiderio sicuro della nostra associazione camminare su un percorso di novità, senza trascurare quello che c’è.

    Bisogna però essere molto chiari. Prima di tutto dobbiamo premettere che non siamo né unici né indispensabili, sicuramente siamo in pochi: anche solo per gestire quel poco o tanto che c’è, ci vuole impegno di tempo e senso del servizio. Ringrazio i volontari della mia associazione perché, con quello che possono, fanno già tanto: senza di loro non avremmo fatto quello che comunque, quest’anno in particolare, ha trovato riscontro e favore della gente. Ognuno ha un ruolo prezioso, fosse anche solo quello di pulire le sedie e metterle in ordine. Grazie a Silvana Battagliola nostra Presidente.

    Servono persone con idee ed energie, concrete, con voglia di partecipare e assumersi responsabilità, esercitando la sempre più invocata cittadinanza attiva.

    E l’associazione è lo strumento giusto per questo esercizio. Per chi non lo avesse capito è una richiesta di partecipare, senza alibi.

    Grazie di nuovo a tutte le persone che in modi molto diversi ci saranno vicini anche con lo stimolo.

    Gian Paolo Mantovani

    Coordinatore del Progetto

    Dall’alto del dinosauro ti sporgevi, in mezzo al fango apparvero le case disegnate con un unico lampione a illuminare la via, e poi tavolate e tavolate di allegria e canto. Il convivio dall’alto suscitò la meraviglia:

    “Tienila stretta dentro al petto, domani potrebbe servirti.”

  • Emma – Epopea di un viaggio

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” a cura di Lucia Marchitto


    Non saprei dire perché conservo tante immagini di lei nella mia mente ma, appena entra in biblioteca, mi si affollano nella testa, una in particolare si fa avanti ed è lei che scende dal pullmino con in mano un vaso di gerani rossi.
    Non so nemmeno perché la sua è una voce che non dimentico.
    Forse perché è roca ma non flebile, forse perché è sempre così irruente, come una cascata d’acqua che si riversa con fragore nel vallone sottostante sprigionando schizzi di parole, come se a lungo avesse cercato di trattenerle.
    Salendo le scale già inizia a parlare:

    La mia vita è come un romanzo – dice.
    Emma nasce nel 1950 a Serino in Provincia di Avellino, in Irpinia, è ultima di quattro figli, due sorelle e due fratelli. La madre muore giovane. All’età di quattordici anni emigra con il padre in America, nel New Jersey, dove sono accolti dallo zio, il fratello del padre. Frequenta la scuola e, dopo il diploma, decide di fare un viaggio in Italia, soprattutto al nord e quel giro turistico le piacque molto. Tornata in America iniziò a lavorare, dapprima ci furono lavori saltuari, poi arrivò l’assunzione presso una grossa azienda di assicurazioni ma fece un incidente, per tre mesi restò a casa in malattia e quando rientrò al lavoro fu licenziata. Capì che il sistema americano non le piaceva e decise di tornare in Italia non più come turista, qui iniziò a fare vari lavori impiegatizi a tempo determinato. Ricorda che in edicola comprava la rivista “Tutti i Concorsi” che era sempre esposta in bella vista. Molti Enti Pubblici assumevano personale per tre mesi, a chiamata diretta. Fu così che iniziò a lavorare a Como alle Intendenze di Finanza. Era molto felice perché il Nord le piaceva molto e Como era una bella città con un’atmosfera particolare. Si stabilì a Ponte Chiasso con altre ragazze meridionali, nel rievocare quel periodo inizia a ridere, ride di gusto e a lungo, e racconta:

    C’era una tizia che faceva la bidella ed era andata a Chiasso, noi abitavamo a Ponte Chiasso, dall’altra parte della frontiera il paese si chiamava Chiasso, e si era rifornita di zucchero, caffè, dolci, cioccolata, perché doveva andare giù in meridione, arriva alla frontiera e non la fanno passare con tutte queste buste. Lei che fa? torna al negozio e lascia tutta la roba lì, poi viene a casa da noi dicendo:
    “o Ragazze, aiuto, aiuto!!! Dovete venire con me perché così e così!”,
    così partimmo in tre o quattro, andammo in questo negozio e poi al ritorno ognuna aveva una busta di zucchero, caffè, cioccolata… –
    Arrotonda le o, allunga le parole, si riempie la bocca con l’elenco delle cose che la bidella aveva comprato e ride a lungo, ride talmente tanto che un poco sobbalza perfino il petto.
    Intanto il lavoro alle Intendenze era terminato e si stava dando da fare per trovare un altro lavoro quando sua sorella da Serino le telefona per dirle che è arrivato un telegramma e che deve tornare giù. Era il 2 agosto 1980 quando prese il treno da Como a Milano e da Milano a Napoli. Quando giunse a casa scoprì che poche ore dopo che il suo treno era passato da Bologna una bomba aveva distrutto la stazione con 85 morti e 200 feriti. Era passata accanto alla morte.
    Il destino a volte ci fa passare indenni tra gli orrori della storia, inconsapevoli viaggiatori ci spostiamo da un luogo all’altro, con bagagli diversi incontro alla vita, senza mai pensare che la morte ci ha sfiorato e ha deciso di girarsi dall’altra parte. Quando fece il viaggio inverso vide la devastazione della stazione. Brividi e dolore e rabbia, perché pensi che quello che successe non fu per un tremore della terra o per una qualsiasi catastrofe naturale, ma mani ignobili ammazzarono uomini donne e bambini. Una ferita mai rimarginata.
    Restiamo un attimo in silenzio, anch’io ricordo quel giorno, a Bologna avevo degli amici, due erano ferrovieri e uno lavorava al bar della stazione. Ci si può immaginare cosa si è provato nel sentire la notizia.
    Ma ora siamo qui, in questo posto, tra questi libri, tra le parole di Emma per raccontare la sua storia e un poco anche la storia di quest’Italia, di questa città, di questo quartiere, perché la storia siamo noi e nessuno la può cancellare.
    Il telegramma era una comunicazione del Tribunale che l’avvisava di presentarsi a Como per prendere servizio, contemporaneamente arrivò un altro telegramma per l’assunzione nelle poste a Brescia. Dato che a Como era un lavoro per pochi mesi scelse Brescia perché alle poste l’assumevano a tempo indeterminato, ma si dimenticò di avvisare il Tribunale e pochi giorni dopo che lei aveva preso servizio si presentarono a Serino, da sua sorella, i carabinieri perché non si era presentata a Como, fece una dichiarazione di rinuncia e tutto si risolse nel migliore dei modi.
    Alle poste fu assegnata all’ufficio centrale di Piazza Vittoria, molti impiegati erano meridionali per cui non ebbe difficoltà a inserirsi sul posto di lavoro. Alloggiò presso un convitto di suore che ancora oggi si trova vicino allo stabile dell’ex ospedale Fatebenefratelli.
    Il giorno di ferragosto 1980 erano rimaste solo in tre nel convitto, lei, un’indiana che veniva da Calcutta e una ragazza di Reggio Calabria, decisero di andare sul lago di Garda, dapprima si recarono a Desenzano, poi presero il battello e arrivarono a Riva, era molto presto e in giro non c’era ancora nessuno, decisero quindi di andare a Bolzano con l’autostop, arrivarono nel pomeriggio in periferia, quindi furono costrette a fare ancora l’autostop per il centro, si fermò un bel giovanotto alto con una cinquecento rossa che trasportava sacchi di farina, lei si mise davanti perché era la più alta, e le altre due dietro. Tra lei e il ragazzo nacque subito una simpatia e ricorda ancora oggi la canzone che cantarono ascoltando la radio: “Tu fai schifo sempre” dei Pandemonium, che era stata presentata a Sanremo nel ’79. Quando arrivarono in centro, nell’allontanarsi, notò lo sguardo del ragazzo su di lei. Poteva nascere un amore, ma dovevano essere al convitto entro le dieci di sera, così rifecero l’autostop. Emma ha conservato quello sguardo e forse si chiede: come sarebbe stata la mia vita se fossi tornata indietro, se avessi risposto a quello sguardo?
    Si fermò una macchina con due ragazzi meridionali, salirono ed ebbero molta paura perché non solo correvano come pazzi, ma dissero anche di volere qualcosa in cambio del passaggio, e qui inizia a ridere di nuovo di gusto, perché scoprirono che erano due poliziotti e le stavano prendendo in giro, era solo uno scherzo. Arrivarono alle 11 al convitto, aprì il portone una suora col ceppellino in testa e la sottana da notte, ci mancava solo una candela per avere una visione d’altri tempi, un poco buffa e molto arrabbiata, tanto che fece loro una paternale!
    I suoi ricordi accendono i miei che tra il 1979 – 1980 praticai l’autostop e da Brescia arrivai fino a Parigi! Zaino e sacco a pelo in spalle e dito alzato, pochi soldi nelle tasche e tanta voglia di andare lontano, lontano. Ah, gioventù che passi in fretta e non torni più!
    Le poste organizzavano gite per i propri dipendenti a cui lei partecipava spesso. Un giorno dovevano andare al lago della Vacca ma a metà salita lei e due sue colleghe, una napoletana e una calabrese, decisero di tornare indietro perché non ce la facevano a fare tutta quella salita. Arrivate al parcheggio, dissero all’autista del pullman che loro andavano a Bagolino e si sarebbero fatte trovare in centro dove avevano intenzione di andare a comprarsi un gelato. Fecero l’autostop e si fermò una grossa macchina con la vernice metallizzata! A quei tempi era una rarità. C’era l’autista e un passeggero ed erano anziani, parlando scoprirono che uno era il Presidente di Confindustria e l’altro era il proprietario della farmacia in corso Palestro. Giunti a Bagolino si fermarono davanti a un bar, diversi uomini erano seduti ai tavoli che, appena videro i due signori anziani, si alzarono e si spostarono con riverenza per farli passare. Poi arrivò il pullman e se ne tornarono a Brescia.
    Nel luglio del 1983 le fu assegnato l’appartamento all’undicesimo piano nella torre di via Tiziano ma andò ad abitarci soltanto qualche mese dopo perché così comprò con calma tutto il mobilio.
    La prima volta che si affacciò dal balcone rimase affascinata dal panorama e quando sentì i campanelli e vide quel gregge enorme di pecore si sentì gioire dalla meraviglia, tutt’intorno erano prati e prati e pecore e lei lì, sulla torre a guardare!

    Quando sono arrivata a San Polo le villette c’erano già, non c’era quel palazzetto dove adesso c’è l’Euro Spin, quello era tutto un prato e venivano a pascolare le pecore, vedevo questo gregge che non so da dove arrivava, quasi tutti i giorni d’estate pascolava, per me era una gioia vedere dalla finestra tutte queste pecore, con i campanelli che suonavano! Erano tutti campi, non c’era il centro Mela e neanche il centro Margherita. E non c’erano neanche le villette a schiera dietro la cascina Maggia, né il centro sportivo, era tutto prato, tutta campagna, alla cascina Maggia c’erano le mucche e solo un viottolo, una strada sterrata per arrivarci, e io mi ricordo che passavo di là per fare una passeggiata e mi divertivo a vedere queste mucche tutte là che mangiavano, era una cascina vera e propria. Non c’era neanche la chiesa, e andavo alla chiesa di via Duca degli Abruzzi. –
    Mentre lo racconta la meraviglia si accende nei suoi occhi scuri, forse le greggi le ricordavano l’infanzia, forse, girovaga come era stata, non pensava di trovare un paesaggio così in una città, una città industriale quale era ed è Brescia. Non se lo aspettava dopo tre anni vissuti in centro storico.
    Muove le mani, si tocca le orecchie, poi allarga le braccia come a voler abbracciare la visione di tutte quelle greggi e nel fare ciò un altro ricordo le torna alla mente. L’anno è il 1985, è inverno, è gennaio, metà gennaio, suona la sveglia, Emma si alza, si prepara per il lavoro, apre la finestra e scopre che il mondo è diventato tutto bianco. In strada ci sono novanta centimetri di neve, l’autobus non passa, sono un gruppetto di persone che l’attendono invano per andare al lavoro in centro, quando capiscono che non passerà si avviano a piedi in mezzo a tutta quella neve. Ricorda le chiacchiere e le risate, e le scivolate, la gioia anche di tutta quella neve.
    È arrivata una ragazzina, ci guarda, si siede al tavolo dietro il nostro, si alza, gesticola, è impaziente, capisco che vuol parlare con me, ma Emma le dà le spalle, non la vede, e continua a ridere ricordando la neve e le chiacchiere, quando finisce di ridere si fa improvvisamente seria e dice che nel quartiere manca un punto d’incontro, una piazza dove ritrovarsi:

    Mi piacerebbe cambiare qualcosa nel quartiere perché vedo che la gente ha voglia di stare insieme, però non c’è un punto di riferimento, una piazza, perché sì, c’è il parco, ma poche panchine, certo c’è la cascina Riscatto però le iniziative che fanno non sono molto pubblicizzate le vedi soltanto se vai vicino al cancello a leggere i fogli attaccati, dovrebbero metterli dove la gente passa. Poi giocano a carte e a me non piace, mi piace parlare con le persone così come stiamo facendo adesso io e te, perché solo parlando ci si conosce. –
    Anche Emma si accorge della ragazzina, si alza, le lascio il mio numero di telefono, ci salutiamo con il proposito di risentirci, la ragazza prende il suo posto: aspettava proprio me.

    Brescia, 2 marzo 2023

  • La casetta di Anna

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” a cura di Lucia Marchitto


    Quando Anna sentì il Presidente della Repubblica Mattarella al Festival di Sanremo parlare dei settantacinque anni della Costituzione rimase un attimo stranita come se solo in quel momento realizzasse che lei aveva la stessa età, questo perché Anna i suoi anni li porta così leggeri sulle spalle da non sentirli o, forse, presa com’è, indaffarata come sempre, non ha tempo di pensare agli anni che passano. Neanche il suo corpo ha tempo per invecchiare preso come è a fare cose: curare casa, cane, gatti, fiori, soprattutto nipoti. Chi la guarda non direbbe mai che quella signora magra il giusto, alta e dritta, sobria nel vestire ha l’età che si è appena detto.
    Come era Anna quando comprò la casa in via Tiziano a San Polo?
    Era una giovane mamma lavoratrice che abitava in via Repubblica Argentina e pagava un affitto caro, molto caro, che comprò la casa prima ancora di essere costruita: era un disegno su carta. La si può immaginare china su un foglio insieme al marito valutandone il disegno, il giardino già lo immaginava e lo sistemava nella mente, così la cucina e il salotto e i bagni e le camere e nell’immaginare quel foglio si trasformava in:

    Una casetta tutta per noi! –
    Gli anni 70 stavano per finire e quella giovane famiglia firmava l’atto di acquisto della nuova casa. Tutto era cominciato per caso, la cugina di Anna andò a farsi i capelli dal suo parrucchiere, il Signor Piccini, che la mise al corrente del nuovo piano di urbanizzazione con tassi agevolati a San Polo e della sua intenzione di comprare casa, la cugina informò Anna e così tutte e tre le famiglie firmarono il contratto il primo di aprile e lei disse:

    – Madonna, magari è un pesce d’aprile! –
    La costruzione della casa durò circa due anni e questo permise loro di pagare la somma dovuta un poco alla volta, man mano che la costruzione andava avanti, per loro che non avevano molti risparmi fu un’ottima cosa. Avrebbero voluto anche fare delle modifiche durante i lavori ma il costruttore Biondo fece loro notare che, essendo edilizia agevolata, non si potevano apportare cambiamenti, le uniche cose che riuscirono a far modificare furono i bagni e i pavimenti in ceramica al posto della moquette.
    Era ottobre del 1980 quando la sua famiglia, insieme a quella della cugina e dei Piccini, vi andò ad abitare e non fu affatto una cosa facile. La prima delusione fu il garage costruito nel giardino che toglieva e toglie luce e aria alla casa, poi ci furono i disagi di vivere in mezzo ai cantieri, senza strade asfaltate e senza servizi. Dice Anna:

    Mio marito che lavorava a Milano doveva andare a piedi in mezzo al fango fino alla Volta per prendere l’autobus perché la macchina, l’unica che avevamo, serviva a me che lavoravo all’area industriale dove non arrivavano mezzi pubblici, inoltre, dovevo portare la bambina da mia madre che abitava in via San Zeno. –
    Le scuole non c’erano e la bambina andava all’asilo a Brescia, non c’era neanche la chiesa e si andava alla chiesetta della Maggia per le funzioni religiose.
    Si stringe un poco nelle spalle come se un gelo l’avvolgesse tutta:

    Mi ricordo che a Pasqua, siamo venuti qua in autunno, un freddo nelle case!!! Erano fredde, mamma mia!!! E in primavera eravamo tutti lì, a messa, davanti alla chiesetta della Maggia perché è talmente piccola che non ci si poteva entrare. –
    Prima della chiesa fu montato un capannone che frequentarono per molti anni, non c’erano negozi se non un negozietto nella cascina Aurora di via Raffaello, molto frequentato dalle casalinghe. Mancavano anche le linee telefoniche e un giorno, che nevicava tanto e la sua bambina era ammalata, dovette camminare in mezzo alla neve per raggiungere la cabina e chiamare il medico.
    Tira un sospiro di sollievo dicendo che tutti quei disagi passarono alla svelta e furono fortunati perché nella schiera c’erano altri quattro bambini con cui sua figlia subito fece amicizia e sebbene non frequentò mai le scuole del quartiere aveva una bella compagnia con cui giocava e andava all’oratorio. Sua figlia ha frequentato il quartiere, si è laureata, si è sposata ha due figli e vive e lavora a San Polo. Ed è attraverso la figlia che frequentarono l’oratorio e conobbero altre coppie con cui condivisero momenti felici e spensierati.
    Scoprì la bellezza di frequentare i parchi solo nel 1992 quando ebbe il primo cane, anche perché quando arrivò nel quartiere i parchi erano appena abbozzati, ora sono uno splendore, sono cresciuti gli alberi anche quelli vicino all’Alfa Acciai.

    L’alfa Acciai c’era già, siamo noi che siamo venuti qui quando sapevamo che l’acciaieria c’era già, per l’amor del cielo! All’inizio era molto peggio, quando siamo venuti ad abitare la mattina sui davanzali, che avevano infissi bianchi, si depositava un dito di nero e io lo toglievo tutte le mattine. Poi ci sono stati tanti ragazzi che si sono ammalati di leucemia e uno è morto, sicuramente è stato per l’Alfa, comunque adesso è migliorato molto perché io, almeno a casa mia, non trovo più quel nero, prima era proprio fuliggine nera, però non possiamo dare la colpa all’Alfa, l’Alfa c’era già, è di chi ha deciso di costruire un quartiere qui che ha sbagliato, secondo me, poi chi è venuto, come me ad abitare qui, lo ha fatto per una questione economica. Poi allora non c’era questa cultura dell’ambiente e dell’ecologia, non ci avevamo neanche fatto caso! Certo era un poco distante, però non ci avevamo neanche pensato, perché il problema non era così sentito come adesso. Certo poi il problema è venuto fuori subito perché si è cominciato a vedere questo fumo, questa fuliggine è chiaro che bene non faceva, poi tutti si sono attivati per fare in modo che mettessero i filtri, dopo dipende anche dal vento a volte va di qua a volte va di là, però ora tutti sanno che San Polo è cresciuto intorno all’Alfa. Poi chi lavorava lì diceva mi faccio la casa vicino. –
    Il silenzio si posa su noi due ed è nero di fuliggine.
    Si riscuote, le sorridono gli occhi mentre pensa a suo nipote e dice che proprio qualche giorno fa, le ha chiesto:

    Ma nonna a te piace la tua casa? –
    La sua risposta convinta è arrivata subito senza tentennamenti, la sua casetta le piace, soltanto ha un poco di dispiacere pensando che nel giardino c’è il garage, ci sono i muri alti e gli appartamenti della cooperativa “La famiglia” di fronte che tolgono un poco l’aria. Le piace anche per il fatto che qui ora ha tutto servizi, negozi e pure la metropolitana anche se un poco scomoda, però c’è, poi andando su con l’età ci si può muovere tranquillamente, è tutto in piano e ci sono ciclabili e pedonali belle spaziose. Ci sono alcuni che dicono che il quartiere è brutto ma secondo lei non è vero. In via Michelangelo ha conosciuto una persona che lavorava alla guardia di Finanza che aveva lì degli appartamenti, conosce anche la mamma di una vicina di casa di sua figlia che abita nella stessa torre ed è una persona normalissima. Insomma, nelle torri qui vicino non le pare ci siano problemi forse, dice, alla Tintoretto sbagliarono mettendoci insieme tutti quelli del Carmine con tutti i problemi che avevano. Non riesce neanche a capire perché si siano costruite le torri quando c’era tutto quello spazio disponibile.

    Potevano farle come le case a spina, quelle oltre i cavalcavia, in fondo sono case dignitose, hanno il loro giardinetto, anzi meglio delle nostre, hanno tanta bella aria e il parco davanti! –

    Anna si alza e mentre si avvia alla porta mi promette di portarmi una rivista del 1984 dove c’è un articolo interessante sul quartiere. La guardo mentre si incammina passando sotto la meravigliosa quercia che svetta i suoi rami nudi dietro il mio giardino e penso alla sua fame d’aria, al fatto che qui c’è un boschetto magnifico, che tra poco si aprirà alla primavera, la sento già nell’aria, in quel venticello gentile che si infila tra i rami spogli.

    Camminando tra boschetto e prati Anna e la sua cagnolina, ognuna curiosa a modo suo, ammireranno le violette, il tarassaco con il giallo del suo fiore, l’azzurro degli occhi della Madonna, le prime foglie sui rami degli olmi.
    Piena di bella aria tornerà alla sua casetta.

    Brescia, 1° marzo 2023

  • Giuseppe e il tempo

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” a cura di Lucia Marchitto

    Giuseppe abita in una villetta a schiera in via Robusti che si trova, rispetto a via Tiziano, dall’altra parte di via San Polo, ricordo che c’era la torre del Tintoretto proprio di fronte alla schiera, era un posto un tantino sporco e quando lo guardavo pensavo alla miseria, mi sembrava che brulicasse intorno a quel palazzo una povertà cui non ero avvezza, sebbene io abbia vissuto un’infanzia priva di ricchezza. Ora che è stata demolita l’area è delimitata, è un grande spazio vuoto, eppure in quello spazio ancora persiste l’immagine della torre con gli oblò, ed è quella l’immagine che ha fatto nascere intorno al quartiere la narrazione di un posto invivibile, di una periferia degradata. Non solo la Tintoretto ma anche le altre quattro torri: Cimabue, Michelangelo, Raffaello, Tiziano. Nomi di grandi artisti, grandi pittori, tranne Tintoretto sono tutti del Rinascimento. Forse si voleva onorare i grandi conquistando il cielo? Per conquistare il cielo si è dimenticati della terra e dei suoi abitanti. Mi viene in mente una frase del mio professore di italiano delle medie: l’uomo per vivere ha bisogno di spazio. C’era spazio in quegli appartamenti?
    Quando vidi per la prima volta il quartiere pensai che chi aveva costruito avesse voluto dargli l’impronta, dire ecco ti trovi in un quartiere popolare, tutto quel cemento esposto, quei muri alti! Quando vidi le torri per la prima volta pensai alle piccionaie, svettano nel cielo dominando casette a schiera, a spina e a case alte: una rinascita senza bellezza.
    Con Giuseppe oggi ci incontriamo in biblioteca.
    Entriamo, salutiamo Luigi e saliamo al piano di sopra col passo sicuro di chi conosce bene il luogo, d’altra parte io e Giuseppe facciamo parte del gruppo di lettura che qui, ogni secondo mercoledì del mese, a tarda sera, si riunisce da anni.
    Eppure, appena entrata nella sala ho come l’impressione di essere in un posto nuovo: c’è qualcosa di diverso nell’essere qui, oggi, innanzitutto c’è la luce del giorno che cade dalla finestra, mi rendo conto che la luce illuminando questa sala, vissuta sempre di sera la rende improvvisamente sconosciuta e i libri sugli scaffali paiono in attesa, come noi due che aspettiamo le parole dell’una e le storie dell’altro.

    Ci togliamo i cappotti, ci sediamo di fronte, Giuseppe è un poco discosto dal tavolo, ha le gambe distese e appoggia la schiena alla sedia che è leggermente girata verso la finestra, tanto che riesco a vedere persino le scarpe, in una posa che appare rilassata e pronta all’ascolto più che al racconto. Tiro fuori quaderno, penna, schiaccio il pulsante del registratore, mi avvicino al tavolo lasciando spazio tra me e lo schienale della sedia, Giuseppe ha una voce flebile, a volte pare un sussurro, e io confido molto nel registratore per conservare al meglio le sue parole.

    Giuseppe nasce in un comune della provincia di Avellino, in Irpinia, nell’anno 1950, suo padre oltre a coltivare le terre era responsabile dell’acquedotto presso il comune. La madre, casalinga, come tutte le donne del paese faceva il pane in casa utilizzando il cresci, il lievito che passava di casa in casa.
    Il tempo al paese non era un’ossessione, dice Giuseppe:

    Una volta uno si alzava la mattina, all’alba, faceva quello che doveva fare e quando faceva notte se ne tornava a casa, non è che calcolasse il tempo, non calcolava quanto ci avesse messo a fare questo e quello. Adesso è tutto in rapporto col tempo, quanto ci hai messo a fare questo e quell’altro e la sera sei stressato, sei stanco.
    Il tempo lo hanno inventato gli uomini per sfruttare il lavoro degli altri uomini.
    Oggi siamo presi dalle nostre comodità, io dico sempre che da quando è venuta fuori la ricchezza diffusa con tutte le comodità ci ha fatto perdere il significato delle cose, forse è per questo che mi piace lavorare con le mani perché il lavoro manuale ti mette a contatto con la realtà. –
    Si diplomò maestro d’arte e iniziò a fare anche una supplenza in Irpinia, un caso, perché lì o eri raccomandato o non trovavi lavoro e fu per questo motivo che fece domande nelle scuole del Nord Italia e quando lo chiamarono a Brescia, per insegnare arte nelle scuole, accettò di buon grado perché conosceva la città in quanto vi aveva svolto il servizio militare.
    All’inizio trovò alloggio presso una piccola pensione per ragazzi del Sud in centro città, vicino al Coin, dopo si trasferì in via Ducco con un altro ragazzo, poi conobbe una ragazza, si sposò e andò ad abitare in via Tosoni, al terzo piano senza ascensore, dietro l’ospedale civile. Un giorno incontrò un amico che stava comprando casa a San Polo e gli disse:

    Perché non comprate pure voi così andiamo ad abitare vicino? –
    Il fatto di non avere soldi e che i tassi di interessi sul mutuo erano molto alti non impedì alla giovane coppia di iscriversi alla cooperativa che doveva costruire un condominio orizzontale con relativi giardinetti in via Robusti. I futuri inquilini si affidarono a un ingegnere e forse fu un bene, anche se ovviamente anche l’ingegnere volle la sua parte, perché ci furono persone che si affidarono a delle cooperative, pagarono e delle case non se ne seppe più niente.
    C’era anche la questione dell’Alfa Acciai che fu discussa tra i futuri acquirenti, ma il prezzo della casa era buono e ragionando sull’inquinamento si dedusse che questo non è che sta fermo, va dove lo spinge l’aria.
    Quando andò a vedere il posto c’era ancora il granturco, poi tutto fu lottizzato con la costruzione anche di due palazzoni e il posto si riempì di gente. Nella sua schiera, una ventina di proprietari erano impiegati del Sud. Chi si iscriveva alla Cooperativa doveva accettare le soluzioni che cadevano dall’alto e tutto venne fatto al risparmio. Costruirono anche due palazzoni: Tintoretto e Cimabue, il primo è stato abbattuto e al suo posto c’è un cumulo di terra.
    Giuseppe parla così lieve, con la testa un poco abbassata con il mento che sfiora il petto, se non fosse che ogni tanto si giri verso di me si potrebbe dire che stia facendo un monologo.
    Erano una giovane coppia in una casa nuova in cui subito si trovarono bene anche se avevano il mutuo da pagare. All’inizio il quartiere offriva solo le ACLI e la Chiesa che a lui non interessava anche se la frequentò giusto il tempo in cui la figlia fece la prima comunione e la cresima. Una cosa che ricorda e a cui partecipò fu la raccolta nel quartiere della carta, per lui era importante fare qualcosa per il quartiere, per renderlo migliore.
    Fa un mezzo sorriso quando dice:

    Si diceva che il quartiere fosse una specie di Bronx che io personalmente non ho vissuto. So che nel palazzone, quello che hanno abbattuto, c’era gente che andava per vedere lo spettacolo, io non sono mai andato su, forse sono uno dei pochi, la gente ci andava per vedere questi corridoi lunghi come se fosse una galera, secondo me era difficile viverci là dentro, poi ci portarono tutta la gente sfollata dal Carmine, tutte situazioni un po’ al limite, seguite dai servizi sociali, misero tutta questa gente tutta insieme, cosa pretendi di ottenere? Io non ho mai capito la politica che hanno fatto. Quando lo hanno buttato giù abbiamo visto lo spettacolo di come si fa a demolire un dinosauro, ora stanno portando via tutta quella montagna di sabbia e non so dove va a finire, sarebbe da rifiuti speciali. –
    Ora che è in pensione il quartiere lo gira in lungo e in largo con la bicicletta ed è l’unico quartiere che ha vissuto, prima nel condominio lavorava, tornava a casa, faceva un giro in città, però non è che vivesse il quartiere; invece, qua ha riferimenti più precisi. Poi qui ci sono tanti spazi verdi e Giuseppe appena può va in campagna, certe volte esce in bicicletta, costeggia i laghetti e si dirige verso Castenedolo; a volte arriva fino al lago di Garda. Spesso si aggrega a un gruppo di ciclisti che lui chiama “biciclettari” anche se i gruppi spesso lo deludono, forse perché a lui piace essere coinvolto personalmente. Dice:

    A me piace qualche cosa dove ci si coinvolge personalmente, cosa penso io, cosa pensi tu, scambiarsi le opinioni serve a capire con chi hai a che fare, ti rendi conto come tante persone sulla stessa cosa hanno idee diverse e anche se sbagliano, sbagliano a fin di bene, perché la loro storia è così, è come con il libro del mese, io mi sono stufato ogni tanto di non dire niente, così mi son detto ora questa cosa la dico e l’ho detta… insomma, il protagonista è uno sconfitto! –
    E poi sconfiniamo parlando di Dostoevskij, Tolstoj, Moravia, d’altra parte siamo in mezzo ai libri che lì, sugli scaffali ci guardano, sono stufi di aspettare, così spengo il registratore e continuiamo la conversazione che nulla ha a che vedere col tema di questa intervista.


    Brescia, 14 febbraio 2023

  • Rita – Noi donne abbiamo fatto l’Italia  

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” a cura di Lucia Marchitto

    È presto, sono le nove del mattino, prendo la borsa, il quaderno, la penna e mi avvio per la strada asfaltata, arrivo dove c’era la cabina, attraverso, passo sotto il cavalcavia e sbuco nel parco dedicato a Fabrizio De André.

    Non c’è nessuno per strada.

    Pare un mondo addormentato.

    Suono il campanello, si affaccia, mi saluta invitandomi ad entrare, attraverso il giardino, entro nella piccola sala e Rita mi accoglie con un sorriso, mi fa accomodare, e io non riesco a distogliere lo sguardo da due grandi fotografie in bianco e nero appese alla parete, in una c’è il primo piano di una giovane donna che pare nell’atto di voltarsi verso chi entra accogliendo con un sorriso il visitatore, nell’altra ci sono quattro bambini di diverse altezze, sono in fila, dal più piccolo al più grande: pare una scala su cui gli occhi che guardano si spostano per arrivare al volto della madre che li mostra al mondo in una posa che ricorda un quadro d’artista.

    Ho la sensazione che il passato mi guardi e si racconti nella semplicità che si è svestita dei colori per mostrare l’essenziale. Appena sotto le fotografie c’è Rita.

    -          Sei tu? – dico indicando la prima foto.

    -          Sì, ora ho ottant’anni, e questa, dice indicando la seconda, è mia madre con noi figli. –

    Sottolinea che ha ottant’anni guardandomi dritta negli occhi come a dire: questa è la vera me stessa, quella nella foto non esiste più.

    Si siede. Inizia a parlare, con urgenza quasi, come se volesse dire che da quelle fotografie è passato un sacco di tempo, e che in quel tempo lei ha vissuto e continua a vivere non stando mai ferma, che la vita è movimento, azioni che si susseguono l’una all’altra incessantemente, che il tempo del racconto è ora, in questo momento, dentro questa stanza, dentro questa casa da cui è già uscita questa mattina per andare a comprare il pane, il suo rito quotidiano, e che ha già tutto il programma pronto per l’intera giornata. Sono pronti i sacchi da portare in discarica, sacchi che ha riempito con le “robe” che tanti lasciano vicino ai cassonetti.

    -          Sono arrivata nel quartiere il 1° luglio 1995. Abitavo in una casa in affitto a Villaggio Prealpino, poi il proprietario la mise in vendita e dovetti cercarmene un’altra. L’Aler mi propose un appartamento al secondo piano di San Polo. Quando sentii San Polo mi si rizzarono i capelli, poi al secondo piano voleva dire che c’era l’ascensore e io odio i condomini e soprattutto odio gli ascensori, tra l’altro avrei preferito spostarmi a San Bartolomeo perché era più vicino a dove abitavo. La Signora dell’Aler però mi fece presente che lì non c’era il teleriscaldamento e così accettai. Quando mi fu comunicato la via e il numero civico chiamai mia cugina che abitava e abita in via Tiziano, che, felice, mi venne a prendere e mi accompagnò, dapprima cercammo l’appartamento nel condominio che c’è qui in questa via e lo trovammo murato. La Signora poi mi spiegò che facevano in quel modo per evitare l’occupazione abusiva. Il fatto era che quello che mi avevano assegnato non era l’appartamento nel condominio ma questa casa! Quando vidi il giardino e scoprii che c’era anche il garage e la cantina fui veramente contenta. Una casetta tutta mia! Con la sala, un cucinino, il bagno, lo sgabuzzino, due camere sotto e un’altra al piano di sopra! Io ero sola perché mio figlio stava col mio ex marito in quel periodo. Siamo sempre andati d’accordo io e lui tant’è che andai anche al suo secondo matrimonio, e con la sua sposa c’è sempre stata una buona intesa, ora che lui è morto, al mio compleanno e a quello di mio figlio lei, la sua seconda moglie, ci porta sempre al ristorante. –

    Si illumina tutta quando pensa alla sorpresa di trovare questa casa, ha due occhi scuri, uno sguardo vispo, sopracciglia disegnate a matita. Poi inizia a parlare della sua attività lavorativa che fino ai trent’anni ha svolto in fabbrica e dopo ha fatto la cuoca nelle mense, spostandosi da un posto all’altro, la mandavano dove c’era bisogno, andò a Cremona, Mantova, Pavia per dire, non aveva paura di affrontare viaggi e nuovi ambienti di lavoro. Le piaceva guidare. Si alza, va verso la parete di fronte dove, a differenza dell’altra parete, ci sono solo fotografia a colori, me ne indica una che ritrae una donna sorridente al volante di una macchina.

    -          Anche questa sono io! – dice con enfasi.

    Mi guardo intorno, tutte le pareti sono piene di fotografie, mi mostra il figlio, la nuora, la nipote che le è così cara, ed è con orgoglio che mi mostra dei disegni fatti dalla sua nipotina, è così brava a disegnare tanto che ha vinto un premio e una borsa di studio partecipando a un concorso per piccoli artisti.

    Si siede di nuovo, quasi sotto la foto in bianco e nero, mi pare che passato e presente si incontrino concentrandosi nei suoi occhi, mi sembra che la giovane donna del ritratto si trasformi man mano che prosegue il racconto, fino a diventare la signora di ottant’anni che mi guarda con i suoi occhi vispi e la voce allegra.

    Sostiene che nel quartiere non va da nessuna parte se non a messa, al Margherita d’Este, nei negozi, e ogni tanto alla pizzeria L’incontro. Quando gira per il quartiere si ferma a chiacchierare con le persone che incontra ma non va mai a casa degli altri, perché sua madre le diceva “Mai andare a casa degli altri!” Fa delle belle passeggiate per i parchi, quando aveva il cane faceva anche quindici chilometri tutti i giorni, partendo dal parco Fabrizio De André arrivava alla Poliambulanza, percorreva via Duca Degli Abruzzi e tornava a casa. Nel pomeriggio insieme a una sua amica, andava all’Adrian Pam, proseguiva per Parco Ducos, via Gatti arrivando a Sant’Eufemia poi tornava indietro. Altre volte lei, la sua amica e i due cani andavano e tornavano a piedi fino al castello di Brescia.

    Un’ombra di tristezza appare sul suo viso, scuote un poco la testa nel dire:

    -          Sai quante camminate ho fatto col mio Dylan! Te lo ricordi sicuramente! Di quando è morto è meglio non parlarne sennò mi viene ancora il magone! Ma non ho mai pensato di prendere un altro cane, sai l’età, e poi costa anche un po’ di soldi. Sono pensionata e non mi dà niente nessuno e non chiedo niente a nessuno, vivo con la mia pensione! –

    Me la ricordo quando la incontravo con il cane, un labrador, le camminava a fianco senza guinzaglio, mai che abbaiasse o che si mettesse a correre, teneva il passo della padrona.

    Nel quartiere si è sempre trovata bene. Vicino al Gazebo, dove c’è il campo da bocce e gli orti vede sempre tanti ragazzi, non sa se combinano qualcosa, ma non le hanno mai dato fastidio. Ricorda che, quando ancora non c’era la metropolitana, dietro gli orti si riunivano dei drogati, avevano una panchina con un telo e, in parte, avevano messo un bidone dove raccoglievano la spazzatura, lei passando si fermava:

    -            Buongiorno signora, dicevano, anche se erano lì in sette o otto, mi fermavo a chiacchierare insieme, non c’è stato mai uno che mi abbia detto una parola fuori posto. Per quello io anche in giro non ho mai avuto problemi, sarà che io sono un tipo …! –

    Non finisce la frase, muove un poco le mani, si tocca il viso e forse per definire che tipo di persona è, racconta che la mattina, quando va a comprare il pane, se ha cinquanta centesimi che le avanzano li dà a un ragazzo che se ne sta spesso vicino al fornaio, anche al Signore di colore che ha il banchetto con le robe davanti all’Euro Spin dà qualche spicciolo e a Natale anche due o tre euro, ogni tanto gli porta la cioccolata, un pacchetto di biscotti, un po’ di frutta. Anche quando va al Margherita D’Este incontra un altro bisognoso a cui rivolge parole gentili e un poco di carità.

    -          C’è sempre un senzatetto con la barba, scuro, poverino, anziano, avrà … però non cerca niente a nessuno, allora certe volte, quando vado là mi siedo sulla panchina, lui si alza per farmi posto, io anche l’altro giorno gli ho detto:

    – Si sieda che c’è posto per tutti e due! –

    – Non vorrei disturbare! –

    – Ma si figuri! –

    Si è seduto e ci siamo messi a parlare. Ma io quando lo vedo fuori appoggiato al muro… ma io lo saluto sempre, gli dico due parole, anche se non cerca i soldi io glieli do. Poi c’è un altro sull’angolo. Però non posso dare a tutti, ho l’affitto, le bollette … io son poveretta, non è che posso a tutti … –

    Sospira, fa un gesto di impotenza mista a tristezza poi si riscuote e riprende a parlare veloce, veloce, le cose che ha da dire sono ancora tante, non vuole dimenticare niente, forse.

    Racconta che vicino ai cassonetti c’è sempre roba sparsa per terra, anche molta bella, a volte scarpe nuove, vestiti, persino coperte, lei divide gli indumenti mettendoli nei sacchi, quello scempio è fatto da gente che passa per strada. Una volta selezionata la roba porta quella brutta in discarica e quella bella a Leno dove c’è la Caritas, un grande capannone con tante lavatrici, ci sono le donne volontarie che selezionano i capi, attaccano i bottoni mancanti, li lavano, li stirano e li dispongono sugli scaffali o sugli attaccapanni. Quando si presenta qualcuno che ha bisogno gli chiedono cosa gli serve, vestiti coperte o scarpe. Gli chiedono che taglia ha, che colore preferisce, gli danno quello di cui ha bisogno senza esagerare perché sanno che se è troppa o non gli va bene la roba poi la buttano.

    -          Io porto le cose belle che trovo alla Caritas, giù là (vicino ai cassonetti) c’è roba bella che buttano, poi si lamentano, noi siamo abituate perché cresciute in un altro mondo, noi abbiamo fatto l‘Italia col nostro lavoro! Noi donne – dice con orgoglio – abbiamo fatto l’Italia! –

    Tira un sospiro, guarda me, poi in alto, sembra raccogliersi nel silenzio improvviso, dalla posizione in cui mi trovo vedo il suo viso e dietro di lei appena un poco più in alto la fotografia che la ritrae giovane e ho la sensazione che il passato mi guardi e tracci una linea col presente attraverso la sua voce. Si riscuote, mi guarda, guarda la stanza, dice che ha comprato la cucina nuova, si alza per mostrarmela, io spengo il registratore, la seguo, guardiamo la cucina poi mi fa vedere tutta la casa. In una stanzetta le pareti sono piene di fotografie, alcune in bianco e nero, di un formato piccolissimo, la ritraggono nel giorno del suo matrimonio, su un mobile sono allineati come soldatini i volti di numerose persone, lei li sfiora un poco con le dita, nominandoli, uno, a uno, dice:

    -        Sono tutti morti! – Eppure, a me sembrano tutti così vivi, tutti ancora lì a vivere attraverso il suo sguardo, sotto le carezze delle sue dita, nella voce che li chiama per nome.

    La saluto, esco con la promessa di tornare a trovarla.

    Il mondo nel frattempo si è svegliato, e io cammino in mezzo al verde del parco, mi accompagna la storia di Rita, le parole così leggere volano tra i rami, cinguettano come uccelli.

    Brescia, 6 febbraio 2023

  • Viaggio in periferia – Inizia il viaggio

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” a cura di Lucia Marchitto

    Ogni viaggio inizia sempre chiudendosi la porta di casa alle spalle, nel palesarsi questo pensiero mi rendo conto che non è del tutto vero, che il viaggio inizia prima mentre ci mettevamo le scarpe, anzi ancora prima, mentre riordinavamo la casa, girando da una stanza all’altra, soffermandosi in una di queste, perché anche lì si possono fare viaggi senza scarpe e senza cappotto, senza sciarpe e guanti, penso questo perché siamo in inverno e stamani ci sono tre gradi di massima, e, forse, è proprio lì, nella stanza che il viaggio prende forma, decidendo dove portare i passi fuori casa, e mentre decidi tocchi cose, sposti sedie, togli la polvere dei giorni che si è accumulata. Il silenzio intorno è solo un complemento che serve a far sentire più forte le voci che qui vi sono rinchiuse: prigioniere del tempo recitano la loro parte.

    Sono arrivata in questa casa, che si trova in via Tiziano, nel 1989, aveva porte bianche di cartone, per me che lasciavo il disagio di vivere a Borgosatollo dove non avevo parenti né amici e che vivevo in una vecchia cascina magnificamente ristrutturata, piccola e graziosa, ma piena di nebbia, la nebbia fu l’ostacolo più duro da superare, questa casa mi diede il respiro, il respiro di poter contare su una serie di servizi indispensabili per me madre lavoratrice di due figli piccoli. La scegliemmo perché vicina al plesso scolastico di via Raffaello. Non solo le scuole a due passi, ma con il servizio di anticipo e prolungato potevo portare e andare a prendere i miei figli a scuola senza bisogno di una babysitter perché trovare quella giusta è sempre un problema! D’ altra parte poi, essendo noi quel che siamo, essendo cioè né ricchi, né poveri, questo quartiere era alla nostra portata economica.

    Quando vi giunsi dovetti trovarmi un punto di riferimento per non sbagliare traversa, e quel punto fu la cabina telefonica, tutti quei cavalcavia, che collegano le traverse delle villette con il parco dedicato a Fabrizio De André, mi confondevano.

    Vi giunsi e ne colsi la bruttezza, non poteva essere altrimenti, ma mi sentii in pace.

    Mi sentii in pace nonostante la fama che aveva il quartiere, nonostante le parole dei miei colleghi: “Sei andata ad abitare in un quartiere malfamato” “Io ho paura persino a passarci in macchina!” “È il Bronx!”.

    E qui continuo a viverci e oggi, e dopo tutti questi anni, mi appresto a iniziare un viaggio, un viaggio dentro San Polo, per sentire la voce, le storie di altri che vi abitano, per raccontare tutti insieme, come è nato, come è cresciuto il quartiere, come viene vissuto, per costruire la memoria di una comunità attraverso la scrittura, perché è attraverso le piccole storie che si scrive la Storia, perché, come dice Francesco De Gregori, la Storia siamo noi.

    Metto gli scarponcini, guanti, sciarpa e cappello, imbacuccata come una vecchia, d’altra parte giovane non sono, mi avvio. Prendo la stradina che porta alla cascina Maggia che ora è chiusa, ma c’è stato un tempo in cui c’era il bar, il ristorante, le camere da affittare, la sala conferenze, con l’area camper quasi sempre piena. Fu ristrutturata pochi anni dopo il mio arrivo qui, ora e lì che aspetta un nuovo destino con quell’aria triste e malinconica delle cose abbandonate, la tristezza sottolineata e riassunta su quel foglio plastificato e sbiadito che recita: “temporaneamente chiuso”, la malinconia lo circonda tutt’intorno come un’aureola.

    Costeggio il canale in fondo al boschetto inoltrandomi tra gli alberi, libero il cane che inizia a correre e ad annusare. Osservo le piante spoglie, come monumenti si allungano e si allargano verso il cielo che oggi è carico di nuvole, grigio, pare addormentato, eppure questo grigio mi sembra appropriato per camminare nel sogno che mi sono sognata. Tiro il ramo di un albero e noto che ha dei piccoli bottoncini, si sta preparando alla primavera, per terra le foglie secche scricchiolano sotto le scarpe, è un tappeto sfumato nelle varie tonalità del marrone, sono perlopiù foglie di quercia, con quella loro forma che mi ricorda una mano aperta, tra queste spuntano verdi e brillanti ciuffi di foglie dritte e lunghe di giacinto selvatico. Odo un fruscio, proviene da un tronco verde ricoperto di edera, freme come se fosse scosso dall’interno da qualcosa, e poi li vedo: sono tanti piccoli passeri che volano tra le foglie, uno mi pare sia un pettirosso. Dal boschetto passo direttamente nel parco che scopro chiamarsi “Giardini Giovanni Borghetti” leggendo la lapide posta per terra che si confonde con le foglie, ma che mostra spigoli un poco sollevati, se cammini distratta puoi inciamparci dentro perché non c’è nessuna barriera a protezione.

    Questo parco giardino che doveva forse essere un campo da calcio avendo due porte nel suo interno ma che poche volte ha visto ragazzi giocare, è diventato il campo dei cani, è ampio e confina a sinistra e in fondo con i campi, oltre i campi la stazione metropolitana, il parcheggio e l’ospedale Poliambulanza.

    Questi ultimi non c’erano nell’anno in cui venni ad abitarci. Girando lo sguardo noto in lontananza il Guglielmo con la cima innevata e la Maddalena, più avanti alcuni palazzi, aguzzo la vista e infine ne individuo uno in via Brunelleschi con qualcosa di rosso dentro, ed è lì che abita Claudia.