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  • Il ricamo di Silvana

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” di Lucia Marchitto


    C’è un venticello dolce che accarezza tigli, olmi, querce e platani, sopra i rami si posano merli e passeri che cianciano allegri, sulle ciclabili passeggiano donne, uomini e cani, nel Centro Mela c’è una lunga fila di persone che aspetta il turno davanti alla forneria.
    Non ho fretta, sono in anticipo all’appuntamento, perciò osservo con calma il quartiere. Nonni portano a spasso un bimbo nel passeggino, incontrano qualcuno che si ferma a parlare e a spiare il bambino che forse dorme, o forse spalanca gli occhi sulla magia di un giorno di primavera.
    Arrivo al Centro Margherita d’Este: è incredibile come questo centro, che era quasi morto, quasi abbandonato, sia resuscitato! Gente che va e che viene. Indaffarate o pigre le persone lo attraversano, mi piace osservare i loro movimenti, i loro visi, il modo di vestire, i clienti seduti ai tavoli della “Sforneria” che sorseggiano il caffè, la vita che scorre e si racconta attraverso i gesti, in questo posto, che è il mio posto perché molte delle persone che mi passano davanti le riconosco.
    Aspetto con il libro in mano, che porto come segno di riconoscimento per la persona da incontrare, infatti, mi riconosce per questo, perché non ci eravamo capite, io intendevo aspettarla all’entrata dalle scale mobili lei a quella opposta.
    Gabriella è una signora alta, bionda, dice subito che le due nonne mi stanno aspettando, stanno aspettando la giornalista:

    Non sono giornalista! – dico anche con una certa ansia, non vorrei mi si accusasse un giorno di abuso della professione! – Faccio delle interviste, che poi sono solo quattro domande, per stimolare il racconto della vita nel quartiere delle persone, per indirizzarle verso il tema che intendo sviluppare, sono come dire, una guida, nient’altro! –
    Sorridiamo entrambe, è una persona gentile, disponibile, anche lei abita in quartiere ed è nata in una cascina del centro Storico di San Polo, mi sta portando a casa di sua madre che, insieme alla vicina, è in attesa e sono anche un poco agitate le nonne, hanno paura di non ricordare. Quando arriviamo si affacciano subito sulla porta, l’una alta, l’altra un poco più bassa, l’una dalla carnagione quasi diafana, l’altra nera di capelli, in piedi sulla soglia hanno una espressione di curiosità mista a timore sul viso, appena ci sediamo intorno al tavolo, prorompono in coro, dicendo che a volte non ricordano bene le cose. Silvana e Liliana questo il loro nome, Silvana è la padrona di casa, Liliana la sua vicina e sua amica di sempre: si conoscono da quando erano bambine, d’altra parte sono nate entrambe nel 1937 e hanno vissuto prima a San Polo Storico e poi qui al villaggio “La famiglia”.
    C’è molta luce nella stanza, una stanza molto curata, accogliente. I quadri alle pareti lasciano spazio, non soffocano, danno una pennellata di colore al bianco della parete, e tutto è armonia di forme come quel piccolo vaso con una struttura a clessidra posto sotto la grande vetrata della finestra, la luce che cade all’interno della stanza non abbaglia e si intravede il verde dei giardini.
    Silvana e Liliana parlano contemporaneamente, l’una sull’altra. C’è un sacchetto appoggiato sul tavolo, Liliana lo apre e tira fuori un libro mostrandolo con orgoglio, dicendo che lo hanno scritto due suoi conoscenti, vorrebbe prestarmelo, ma io lo conosco bene avendolo già preso in prestito dalla biblioteca. Dopo aver spiegato brevemente cosa intendo fare, dopo averle rassicurate sul fatto che non ha importanza se non ricordano tutto, inizio l’intervista alla padrona di casa, la Signora Silvana.
    C’è un attimo di silenzio, gli sguardi sono tutti per lei, è solenne l’attimo prima del racconto di una vita che in questa casa vive delle piccole cose, dei piccoli riti quotidiani oggi interrotti dal mio arrivo, arrivo che apre il cassetto dei ricordi.

    Nel dire la sua data di nascita, il 1937, aggiunge subito che il primo ricordo è legato alla guerra, era una bambina e frequentava la scuola elementare, le lezioni si tenevano sotto il portico del “palazzo del Mago”, tutti insieme i bambini, dai sei ai dieci anni, seguivano le lezioni seduti sulle panche pronti a scappare appena suonava l’allarme.
    La sua famiglia era composta dai genitori e cinque figli e quindi occupavano diverse stanze al piano superiore della cascina in cui abitavano. Un giorno arrivò un gruppo di tedeschi con delle camionette piene di roba che, con i mitra spianati, li obbligò ad ospitarli, occupando le loro stanze. Si fermarono a dormire e a mangiare per tre giorni e tre notti durante le quali la sua famiglia dormì su dei materassi poggiati per terra in cucina. I tedeschi avevano sempre il mitra in mano e a turno uno di loro controllava con il binocolo lo stradone. Con i bambini erano gentili e davano loro anche della cioccolata. Con l’arrivo degli americani i tedeschi scapparono. Silvana dice che non capivano quando parlavano i tedeschi, d’altra parte non conoscevano la lingua e poi la sua famiglia e tutti gli altri abitanti della cascina parlavano solo dialetto.
    “Ridono insieme le due nonne:

    Anche adesso parliamo sempre in dialetto! Povere nonne lasciateci qualcosa anche a noi!
    Come a dire: lasciateci almeno parlare la nostra lingua! Poi si illuminano e sempre in coro affermano:

    Ora ci sono anche quelli che scrivono i libri in dialetto! E col riso tornano i bei ricordi, perché dice Silvana:

    Non c’è stata solo la guerra, ma anche cose belle!
    I genitori erano contadini e si erano trasferiti da Castenedolo a San Polo per lavorare presso la cascina “loc scatolot” (luogo scatolotto), si trovava in via Cadizzoni e intorno c’erano altre cascine: quella dei Lodrini, quella dei Bonetti e il Miglio. Si coltivava frumento, granturco e erba per le mucche, nella cascina vi abitavano 13 famiglie, ogni famiglia gestiva i propri animali sia quelli da cortile che i maiali. Da ragazzina andava a prendere l’acqua alla fontana e dava, insieme ai suoi fratelli, una mano ai genitori, perché allora non si stava mai con le mani in mano:

    Quel momento che si giocava, si giocava e dopo c’era sempre qualcosa da fare, dare una mano alla mamma anche in casa, c’era da lavare, da stirare, a me piaceva ricamare e mi sedevo a ricamare, allora mia mamma mi lasciava il tempo.
    La vita in mezzo a tutte quelle famiglie era bella perché erano molto uniti sia gli adulti che i bambini, c’era molto spazio per correre e giocare magari con una palla fatta di stracci. A volte andavano all’oratorio che era vicino alla chiesa nuova, facevano anche il cinematografo ma lei ci andava poco perché non aveva i soldi per comprare il biglietto.
    Vedi n o t a 1
    A dodici anni Silvana andò dalle suore in via Diaz per imparare a ricamare, ci andava a piedi, a volte da sola, a volte erano in due o tre, perché non tutte ci tenevano al ricamo, la sorella invece, imparò a fare la sarta. Dice con orgoglio:

    Il ricamo mi è sempre piaciuto e ho ricamato tutta la dote dei miei figli e delle mie sorelle!
    Guardo la cartina su Google: da via Cadizzoni a Via Diaz ci sono più di quattro chilometri! Ci vuole una certa dose di volontà e anche di passione per fare otto chilometri al giorno a piedi per imparare il ricamo! E nel pensarlo ho come l’impressione che Silvana non abbia soltanto ricamato corredi ma la vita stessa, ne ha tracciato il disegno con un punto rigoroso e insieme fantasioso.
    A quattordici anni cominciò a lavorare in uno scatolificio in via Cremona, ci andava in bicicletta portando nella borsa qualcosa da mangiare:

    Mica tanta roba, uno uovo magari al burro, oppure si andava a prendere dieci lire di mortadella, eravamo tutte così!
    Sul lavoro si trovò subito bene, nonostante allo scatolificio tenessero le ragazze solo fino ai diciotto anni lei vi rimase fino a quando si sposò.
    Dopo il lavoro ricamava. E forse dalla finestra guardava il suo ragazzo e sognava. Il suo ragazzo, che poi divenne suo marito, era il figlio dei proprietari dei terreni che i suoi genitori tenevano a mezzadria, erano cresciuti insieme, insieme avevano giocato nel cortile della cascina e in cascina continuarono a vivere anche dopo il matrimonio, vissero porta a porta con i genitori e con i suoceri per molto tempo ancora.
    Negli anni molte famiglie se ne andarono altrove perché la terra era poca, rimasero nella cascina soltanto la sua famiglia, quella della suocera e quelle di tre cognati, poi uno di questi andò a lavorare in ferriera, un altro fece il carrozziere, e suo marito fu assunto alla a2a.
    La costruzione dell’Alfa Acciai fu vissuta dalla sua famiglia e dagli altri abitanti di San Polo come una buona opportunità per i giovani, infatti, uno dei suoi cognati ha lavorato lì per tutta la vita, e come lui tanti altri giovani vi trovarono lavoro.
    Quando fu approvato il progetto per le Case Marcolini3, vicino all’Arici, Silvana e suo marito, che avevano già tre figli, fecero la domanda per acquistarne una e con molti sacrifici riuscirono a comprarla. Seguirono la costruzione passo, passo, facendo anche apportare modifiche nella scelta dei materiali pagando la differenza.
    Quando, finalmente, nel 1972 si trasferirono il complesso era tutto costruito, tre o quattro ditte si erano impegnate nella costruzione e avevano terminato insieme i lavori. Le famiglie invece arrivarono poco alla volta, la sua si trovò subito bene, lei, tra l’altro, fu molto fortunata perché la sua vicina era la sua amica di sempre, quella che ora è seduta a questo tavolo e sta aspettando impaziente di raccontare la sua storia.
    da l’”Enciclopedia Bresciana”: “Solo superati gli anni ’60 S. Polo perde la configurazione ultracentenaria di borgo contadino con la costruzione di abitazioni, fra le quali spicca il villaggio “La Famiglia” inaugurato il 25 settembre 1971”.
    Nel villaggio non c’erano negozi, ma passavano i venditori ambulanti con i loro furgoncini portando ogni genere di mercanzia. Ora ne passa solo uno che vende frutta e verdura.
    Raramente frequenta i luoghi di ritrovo del villaggio, perché le piace molto stare in casa, trova sempre qualcosa da fare anche se è da sola. Spesso passa sua figlia e d’estate si siede a sera nel giardino della sua amica a fare un paio d’ore di chiacchiere. Vicino abitano altre cinque signore della stessa età, sono invecchiate insieme, quindi non sono mai sole. Dice:

    In quasi sessant’anni che sono qua non è mai successo niente, questo è sempre stato un villaggio calmo
    Calma e serena è l’aria che si respira in questa casa.

    Brescia, 25 marzo 2023

    Coltiviamo la memoria è un progetto ©Giorgio Gregori 2025

  • Paride: novant’anni di storia

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” di Lucia Marchitto


    Controllo l’orologio: sono esattamente le 15.30, appoggiata al muro c’è la bicicletta, è robusta e porta appesi due tasconi grigi, paiono due bisacce, cosa porta Paride lì dentro?
    Paride è il Signore di 90 anni che devo intervistare, sorrido al pensiero che è arrivato in anticipo, un sorriso tenero per gli anni che gli uomini e le donne attraversano e certi anni hanno generato galantuomini, quelli che il rispetto ce lo hanno nel petto e arrivano in anticipo agli appuntamenti.
    Io questo già lo sapevo e fremevo a casa nell’attesa poi disattesa di un altro incontro.
    Ho camminato veloce senza fermarmi ad osservare il mondo, non volevo far attendere un galantuomo.
    Paride è come la sua bici: robusto e robusta è pure la voce e il sorriso.
    La mappa che Luigi, il bibliotecario, ci porta poggiandola sul tavolo, subito si fa materia viva, seguiamo le linee come se fossero rotte di una nave. Il quartiere è sul tavolo e Paride si appresta a descriverlo attraverso le vicende della sua vita, nell’apprestarsi fa una dichiarazione solenne, per avvisarmi, per mettermi in guardia, per dire: io racconto quello che ho visto, come l’ho visto io, ma non è detto che sia la verità perché:

    Il principio fondamentale è che noi non diciamo la verità, perché la verità è una parola grossa! Ce n’è più di una!
    Detto ciò, si presenta:

    Mi chiamo Paride A., ho 90 anni e sono nato nel febbraio del ‘34 a Leno, ora abito in via Revere a San Polo – Brescia
    Sorrido pensando che gli anni sono 89, forse lui pensa allo stesso modo di mio padre che diceva: “Appena li compi gli anni non ci sono più, sei già in quello successivo”.
    Nella presentazione formale e composita c’è già un disegno, una traccia del suo passato, di quegli anni ‘30 del 1900. Gli chiedo chi è stato a dargli un nome così singolare, importante anche.

    È stato mio padre che aveva un amico carissimo a cui aveva promesso che al primo figlio avrebbe dato il suo nome, quel suo amico che si fece prete e che morì sotto i bombardamenti del ’45 .
    Aveva due anni quando la sua famiglia si trasferì da Leno a San Polo che allora faceva parte della frazione di Sant’Eufemia (1), si stabilirono presso la cascina löc de Mez (località di Mezzo),
    Nel dirlo riprende il quadro che incornicia la mappa di San Polo e insieme cerchiamo la cascina, troviamo la Bredina che era nei pressi, ma non la sua. Inutilmente le dita seguono le linee delle vie, delle rogge e delle cascine, la sua non è segnata.
    In quella cascina vi rimasero soltanto due anni perché quando pioveva la vicina roggia esondava e l’acqua entrava in casa dalle finestre basse. I suoi dopo una o due volte che la casa si allogò presero e se ne andarono. Suo padre era un commerciante, perciò spostarsi non era un problema. Tocca ancora la cartina, segue il rigo di una strada:

    Mi ricordo che lo stradone Brescia – Mantova era in terra battuta, fu asfaltato nel 36/38. Ero figlio unico, poi venne una sorella e più tardi capitò un altro maschio.
    Ride di gusto quando afferma di essere figlio unico e a me viene in mente una canzone di Rino Gaetano: mio fratello è figlio unico. Continua a dire ridendo che lui ha alterato la sequenza che vuole un numero più basso di figli man mano che le generazioni vanno avanti, perché se i suoi ebbero tre figli lui ne ha avuto cinque.
    Si placa la risata, abbassa le palpebre, sta un poco in silenzio e poi riprende il racconto dicendo che dalla cascina si trasferirono a San Polo Storico,

    … e non lo si chiami San Polo Vecchio, per carità!
    lo ripete più volte calcando sulla parola storico. C’erano poche case, erano in cinquecento abitanti compreso il Borgo, era chiamato borgo in senso dispregiativo perché era periferico rispetto al centro. Andò ad abitare a sinistra dello stradone, proprio al centro di quella strada che si chiamava Via Mantova.
    La strada era spesso piena di carretti che trasportavano la sabbia dalle cave alla città. Dice che le cave, come le vecchie cascine, risalgono al 1500, perché fu allora che i veneziani imposero la costruzione di case in muratura al posto di quelle di legno.
    Ricorda quando a sera tornavano i lavoratori dalla città e riempivano lo stradone, era una scia di biciclette! Perché è vero che c’era il tram, ma costava!
    Insieme ai suoi compagni giocava a pallone sullo stradone, quando arrivava una macchina si spostavano. D’altra parte, di macchine ce n’erano solo due: una apparteneva al vinaio e l’altra al tabaccaio.

    Passava anche il tram e lui e i suoi amici ne combinavano di cotte e di crude. Ride a lungo, con gusto, una risata grassa che si stempera a malapena quando racconta che sull’ultima carrozza del tram c’era un dispositivo di fermata eccezionale, lui e i suoi compagni spesso lo azionavano facendo arrabbiare sia il responsabile del servizio, sia gli altri passeggeri.
    Si divertivano anche quando, d’inverno, l’acqua che fuoriusciva dalle rogge gelava formando uno strato di ghiaccio, loro con gli zoccoli andavano a scivolare sul ghiaccio, avevano la suola di legno e sopra una scarpa vecchia, vecchia, che i contadini sapevano costruire.
    Di fronte all’Alfa Acciai, c’era l’asilo e la scuola elementare. Le medie che allora si chiamavano scuole di avviamento professionale erano a Brescia. Soltanto lui e altri due
    fattorie e case padronali, pur senza mai acquistare indipendenza civile dal comune e religiosa dalla parrocchia di S. Eufemia.
    I ragazzi frequentarono la scuola di avviamento professionale ed erano considerati da tutti studenti.
    Dai suoi ricordi non può mancare quello della guerra quando tutte le sere passava Pippo a bombardare e quando negli ultimi due anni delle elementari, nel 1944-45, come suonava l’allarme dovevano correre a casa. Pippo buttava anche giocattoli bomba e i genitori raccomandavano loro di non toccarli. A soli nove anni leggeva tutte le sere il giornale che si chiamava Brescia Repubblicana, perché legato alla repubblica di Salò, era stato chiamato così perché era l’unico modo per poterlo vendere. Poi quando la guerra finì si chiamò Giornale di Brescia. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, ricorda degli articoli che parlavano della fucilazione di alcuni partigiani.
    Nel ‘43 era andato a Montichiari dai suoi zii, faceva il conduttore di oche, tacchini, pecore e qualcosa d’altro, quando un gruppo di tedeschi inseguì e uccise un ragazzo che scappava dentro al furmintù, al granturco.
    Suo padre, sua madre e molta altra gente del posto non erano d’accordo con la politica del Duce, infatti quando arrivarono gli americani nessuno li ostacolò. In due o tre giorni passarono centinaia di camion, jeep e carri armati dell’ottava armata americana. Lui insieme ad altri ragazzini raccoglievano i “mucì” i mozziconi di sigarette buttati dai soldati americani, li spaccavano, prendevano il tabacco e lo consegnavano ai genitori, a chi aveva il vizio del fumo e suo padre era tra questi.
    Un giorno gli americani mitragliarono vicino all’Alfa e ancora oggi si vedono nel cemento del fosso i segni dei proiettili e ogni volta che ci passa vicino li guarda e ricorda.
    Dopo la terza media, un giorno, suo padre lo prese e gli disse: “Andiamo a cercare un posto di lavoro!”. Arrivarono in vicolo del Moro a Brescia, ma il falegname cui voleva chiedere di tenerlo come apprendista era chiuso, allora dato che il padre era un venditore di carta, si ricordò che più avanti c’era un tipografo che lui conosceva e gli chiese: “Poet mia dago un po’ de laurà a mio fiòl?”. Ci lavorò tre anni:

    A gratis! Roba da matti! Li ho pagati quei tre anni anche quando sono dovuto andare in pensione: non risultavano da nessuna parte!
    All’età di sedici, diciassette anni andò a lavorare in una grossa tipografia dove fu assunto regolarmente e più tardi si mise in proprio. Ha fatto il tipografo per tutta la vita.
    Quando si sposò andò ad abitare dove c’era la vecchia Farmacia di San Polo. Ci rimase per quattro o cinque anni poi, negli anni ’70, in cui la crescita demografica fu molto elevata, comprarono una delle case di Padre Marcolini, vicino a via Arici, lo stesso luogo dove andava a pattinare con gli zoccoli di legno, ed è lì che ancora oggi abita.

    Quando siamo arrivati lì non conoscevamo nessuno, era un quartiere di stranieri, nel senso buono, venivano da fuori, non da altre nazioni, ma da paesi qui vicino, o da Brescia. Per noi che eravamo del quartiere erano stranieri perché non ci conoscevamo. Il termine non era usato nel senso che è usato oggi.
    Io oggi mi diverto con i figli e gli stranieri che abitano vicino a casa mia, una famiglia di egiziani, una di indiani, culture diverse però con la famiglia indiana abbiamo legato subito, con quella egiziana facciamo fatica perché non ha i nostri usi e costumi e mentalità e lui (il capofamiglia) dovrebbe adattarsi al posto dove è e non noi adattarci a lui. Io spero che lui diventi vecchio e che i figli diventino sanpolesi, perché parlano già il dialetto bresciano. Viviamo in tranquillità con gli stranieri di oggi e con quelli che erano stranieri una volta, che poi erano sempre bresciani!
    Ho visto cambiare tutto il quartiere di San Polo, da cinquecento che eravamo siamo diventati quattro o cinquemila. Parlo di San Polo Storico non di questo, dico io, ma non potevano chiamarlo con un altro nome visto che qui era tutto un campo … era tutta terra coltivata! Invece ora va dalla Volta a Sant’Eufemia. Un rebelot che finiss più!


    Ci alziamo, scendiamo le scale chiacchierando, lo lascio alla sua bicicletta, tornando a casa cerco inutilmente di immaginare i ragazzi con gli zoccoli di legno che giocano nei campi vicino alle rogge scivolando sul ghiaccio, ma la primavera mi assedia con il giallo dei prati, le giunchiglie e le magnolie in fiore. Poi giro lo sguardo verso i giardini Borghetti: ragazzi giocano a cricket, ce n’è uno molto alto, mi pare porti un paio di zoccoli di legno, ride, una risata grassa, coinvolgente.

    (1) Dall’Enciclopedia Bresciana: Nella decadenza del Monastero di S. Eufemia (a) sempre più accentuatasi si stanziò nel territorio una classe imprenditoriale particolarmente attiva, formata da nobili ma in maggior parte dalla nuova borghesia, che popolò il territorio di cascine e di imprese agricole. Accanto a permanenti proprietà monastiche ed ecclesiastiche (la cascina S. Antonio, la strada Canonica, il “locale delle monache”, ecc.) sorsero la Cà di Miglio (casa degli Emigli), Cadizzoni (Casa degli Zoni), la Fenarola, la Bora, la Fusera, la Bergognina, la Tirale, il Chioderolo. Cessata nel sec. XV l’attività dell’ospizio e venduto a privati, anche il piccolo borgo sorto accanto ad esso cambiò fisionomia. Accanto alla chiesa nel `500 venne costruita (ora al n. 255 di via S. Polo) una grande abitazione dalle linee cinquecentesche curiosamente chiamata dalla popolazione come “el palass del Mago”. In esso Angelo Cretti ha visto un rifacimento di altre costruzioni risalenti al sec. XIII e seguenti. La chiesa divenne sempre più patrimonio della comunità che la ricostruì ed arricchì per cui S. Polo andò fin dal secolo XV assumendo l’aspetto di un borgo in mezzo ad una campagna sempre più fertile, contrappuntata da dove c’erano altre tre o quattro famiglie affittuarie perché ne era stato modificato l’uso.

    (a) Dal ‘300 inizia la decadenza del Monastero di Sant’Eufemia che verrà chiuso definitivamente nel 1438.

    Brescia 18 febbraio 2023

    Coltiviamo la memoria è un progetto ©Giorgio Gregori 2025

  • Carlotta ora prende la metro da sola

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” di Lucia Marchitto


    È impaziente, si siede, si alza, si guarda in giro, l’impazienza ha rotto l’aria calma del lungo racconto di Emma, si è infilata come il sole dalla finestra, persino i libri sugli scaffali si sono animati, paiono tutti pronti, in fila come soldatini di piombo per fare la grande parata aspettando la notte, liberi batteranno i piedi, alzeranno la voce, vivranno nel sogno che hanno sognato.
    Quale sogno ha sognato Carlotta? Quale urgenza le fa allungare il collo? Lo sposta a destra, a sinistra, davanti a sé, è impaziente, d’altra parte la pazienza non appartiene ai bambini o agli adolescenti, e lei non è ancora adulta e non è più una bambina, sta sulla soglia impaziente, pronta ad oltrepassarla.
    Carlotta ha dodici anni e riempie col suo nome e col suo corpo lo spazio che qui si fa racconto.
    Carlotta non abita a San Polo ma ci vive, sta con i nonni perché sua madre lavora. Frequenta la scuola media, gli amici e la biblioteca dove ogni venerdì pomeriggio si incontra con la sua amica per chiacchierare e per scegliere i libri da leggere. La sua passione è nata per caso un giorno che la sua amica, che già frequentava la biblioteca, le propose di andarci insieme, ora legge molto, le piacciono i romanzi storici, i gialli, i fantasy, pure la saga di Anna dai capelli rossi che gliela ha regalata suo padre insieme a tanti altri libri, dice muovendo le mani:

    Ovviamente, li scelgo io!
    Nonostante ciò, è arrabbiata con suo padre che è andato a vivere altrove insieme a suo fratello, quel fratello che lei ama molto e di cui sente tanto la mancanza.
    Carlotta ha un animo sensibile, ha un rispetto per l’ambiente e per le cose e si arrabbia quando alcune persone compiono atti incivili come imbrattare i muri della scuola o rubare le sue biro, per il resto si trova abbastanza bene a scuola, soprattutto ora che è alle medie ed è finito il lockdown. Non le pesava il fatto di non essere in classe con i compagni, ma seguire le lezioni on line: quello sì che non lo sopportava! Durante quel periodo ha cambiato anche casa perché quella in cui abitava era troppo piccola e stare chiusi dentro era soffocante.
    Il suo punto fisso è la nonna, a volte passeggiano insieme loro due e il cane ed è anche per questo che conosce bene tutto il quartiere. Ci sono tante cose che le sono successe qui a San Polo.

    Un giorno era con la sua migliore amica davanti all’Euro Spin: “stavamo parlando, io mi ero messa a piangere perché mi stavo sfogando, è arrivata questa signora che non avevo mai visto e si è messa a dirmi che piangerò tutta la vita per cose brutte, mi sono messa a piangere ancora di più, la mia amica cercava di consolarmi in tutti i modi perché io non me lo aspettavo, soprattutto da un adulto, parlare in questo modo ad una bambina di dieci anni! ” Era l’età che avevo quando successe il fatto.
    Stavano sempre insieme lei e la sua amica, si incontravano tutti i giorni, l’accompagnava anche a fare la spesa, poi avevano litigato e dopo avevano fatto pace. Andava anche al gazebo che c’è vicino al campo di bocce e studiava con il suo migliore amico, suo nonno aveva lì l’orto, ha dovuto lasciarlo perché ci vede poco.

    “Qua c’è di bello che se vuoi un luogo per stare da sola ne hai tanti, puoi andare al parco, puoi andare nei campi, fino a poco tempo fa non potevo andare in giro da sola, ora posso prendere la metro da sola ed è una bella responsabilità. A volte andavo a fare i giri nei campi col mio migliore amico e lì ho i ricordi più belli. Era il mio migliore amico poi abbiamo litigato, per colpa sua, ovviamente. Non ci voglio far pace. E poi anche la mia vecchia miglior amica ha fatto una cosa spiacevole e quindi non siamo più amiche. Però adesso ho un’altra migliore amica. “
    Mi pare, ascoltandola, di tornare indietro nel tempo, ai pianti per i cuori infranti, per le amicizie perse e ritrovate, per i segreti da confidare. Quel periodo in cui la vita si spalanca davanti e ci travolge di sogni, passioni, desideri, e delusioni.
    Oggi dice che le è capitata un’avventura: Sono andata fino al Verrocchio perché ho un progetto di teatro, pensavo che fosse oggi, ma mi ero sbagliata, non c’era teatro! Sono andata alla stazione della metro, sono dovuta arrivare fino a Santa Eufemia e poi ritornare fino a qua e non mi era mai successo, ho sbagliato metro!
    Mi piace fare teatro perché ci sono anche alcune mie compagne di classe con cui vado d’accordo. Stiamo imparando un copione, alcune cose sono un po’ noiose, ma stiamo imparando, siamo appena all’inizio. È un testo molto bello, molto fantasioso. Siamo una ventina di ragazzi. È una bella esperienza perché ho conosciuto persone nuove e mi sto facendo nuovi amici e poi ci sono le persone che conosco dalle elementari.
    Questa meravigliosa e tenera e appassionata creatura sta sulla soglia in attesa di diventare adulta, con la sua migliore amica ogni venerdì pomeriggio si inoltrerà tra gli scaffali, prenderà dei libri, vivrà avventure, quanti mondi ancora l’aspettano tra le pagine!

    Brescia, 2 marzo 2023

    Coltiviamo la memoria è un progetto ©Giorgio Gregori 2025