da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” a cura di Lucia Marchitto
Giuseppe abita in una villetta a schiera in via Robusti che si trova, rispetto a via Tiziano, dall’altra parte di via San Polo, ricordo che c’era la torre del Tintoretto proprio di fronte alla schiera, era un posto un tantino sporco e quando lo guardavo pensavo alla miseria, mi sembrava che brulicasse intorno a quel palazzo una povertà cui non ero avvezza, sebbene io abbia vissuto un’infanzia priva di ricchezza. Ora che è stata demolita l’area è delimitata, è un grande spazio vuoto, eppure in quello spazio ancora persiste l’immagine della torre con gli oblò, ed è quella l’immagine che ha fatto nascere intorno al quartiere la narrazione di un posto invivibile, di una periferia degradata. Non solo la Tintoretto ma anche le altre quattro torri: Cimabue, Michelangelo, Raffaello, Tiziano. Nomi di grandi artisti, grandi pittori, tranne Tintoretto sono tutti del Rinascimento. Forse si voleva onorare i grandi conquistando il cielo? Per conquistare il cielo si è dimenticati della terra e dei suoi abitanti. Mi viene in mente una frase del mio professore di italiano delle medie: l’uomo per vivere ha bisogno di spazio. C’era spazio in quegli appartamenti?
Quando vidi per la prima volta il quartiere pensai che chi aveva costruito avesse voluto dargli l’impronta, dire ecco ti trovi in un quartiere popolare, tutto quel cemento esposto, quei muri alti! Quando vidi le torri per la prima volta pensai alle piccionaie, svettano nel cielo dominando casette a schiera, a spina e a case alte: una rinascita senza bellezza.
Con Giuseppe oggi ci incontriamo in biblioteca.
Entriamo, salutiamo Luigi e saliamo al piano di sopra col passo sicuro di chi conosce bene il luogo, d’altra parte io e Giuseppe facciamo parte del gruppo di lettura che qui, ogni secondo mercoledì del mese, a tarda sera, si riunisce da anni.
Eppure, appena entrata nella sala ho come l’impressione di essere in un posto nuovo: c’è qualcosa di diverso nell’essere qui, oggi, innanzitutto c’è la luce del giorno che cade dalla finestra, mi rendo conto che la luce illuminando questa sala, vissuta sempre di sera la rende improvvisamente sconosciuta e i libri sugli scaffali paiono in attesa, come noi due che aspettiamo le parole dell’una e le storie dell’altro.
Ci togliamo i cappotti, ci sediamo di fronte, Giuseppe è un poco discosto dal tavolo, ha le gambe distese e appoggia la schiena alla sedia che è leggermente girata verso la finestra, tanto che riesco a vedere persino le scarpe, in una posa che appare rilassata e pronta all’ascolto più che al racconto. Tiro fuori quaderno, penna, schiaccio il pulsante del registratore, mi avvicino al tavolo lasciando spazio tra me e lo schienale della sedia, Giuseppe ha una voce flebile, a volte pare un sussurro, e io confido molto nel registratore per conservare al meglio le sue parole.
Giuseppe nasce in un comune della provincia di Avellino, in Irpinia, nell’anno 1950, suo padre oltre a coltivare le terre era responsabile dell’acquedotto presso il comune. La madre, casalinga, come tutte le donne del paese faceva il pane in casa utilizzando il cresci, il lievito che passava di casa in casa.
Il tempo al paese non era un’ossessione, dice Giuseppe:
Una volta uno si alzava la mattina, all’alba, faceva quello che doveva fare e quando faceva notte se ne tornava a casa, non è che calcolasse il tempo, non calcolava quanto ci avesse messo a fare questo e quello. Adesso è tutto in rapporto col tempo, quanto ci hai messo a fare questo e quell’altro e la sera sei stressato, sei stanco.
Il tempo lo hanno inventato gli uomini per sfruttare il lavoro degli altri uomini.
Oggi siamo presi dalle nostre comodità, io dico sempre che da quando è venuta fuori la ricchezza diffusa con tutte le comodità ci ha fatto perdere il significato delle cose, forse è per questo che mi piace lavorare con le mani perché il lavoro manuale ti mette a contatto con la realtà. –
Si diplomò maestro d’arte e iniziò a fare anche una supplenza in Irpinia, un caso, perché lì o eri raccomandato o non trovavi lavoro e fu per questo motivo che fece domande nelle scuole del Nord Italia e quando lo chiamarono a Brescia, per insegnare arte nelle scuole, accettò di buon grado perché conosceva la città in quanto vi aveva svolto il servizio militare.
All’inizio trovò alloggio presso una piccola pensione per ragazzi del Sud in centro città, vicino al Coin, dopo si trasferì in via Ducco con un altro ragazzo, poi conobbe una ragazza, si sposò e andò ad abitare in via Tosoni, al terzo piano senza ascensore, dietro l’ospedale civile. Un giorno incontrò un amico che stava comprando casa a San Polo e gli disse:
Perché non comprate pure voi così andiamo ad abitare vicino? –
Il fatto di non avere soldi e che i tassi di interessi sul mutuo erano molto alti non impedì alla giovane coppia di iscriversi alla cooperativa che doveva costruire un condominio orizzontale con relativi giardinetti in via Robusti. I futuri inquilini si affidarono a un ingegnere e forse fu un bene, anche se ovviamente anche l’ingegnere volle la sua parte, perché ci furono persone che si affidarono a delle cooperative, pagarono e delle case non se ne seppe più niente.
C’era anche la questione dell’Alfa Acciai che fu discussa tra i futuri acquirenti, ma il prezzo della casa era buono e ragionando sull’inquinamento si dedusse che questo non è che sta fermo, va dove lo spinge l’aria.
Quando andò a vedere il posto c’era ancora il granturco, poi tutto fu lottizzato con la costruzione anche di due palazzoni e il posto si riempì di gente. Nella sua schiera, una ventina di proprietari erano impiegati del Sud. Chi si iscriveva alla Cooperativa doveva accettare le soluzioni che cadevano dall’alto e tutto venne fatto al risparmio. Costruirono anche due palazzoni: Tintoretto e Cimabue, il primo è stato abbattuto e al suo posto c’è un cumulo di terra.
Giuseppe parla così lieve, con la testa un poco abbassata con il mento che sfiora il petto, se non fosse che ogni tanto si giri verso di me si potrebbe dire che stia facendo un monologo.
Erano una giovane coppia in una casa nuova in cui subito si trovarono bene anche se avevano il mutuo da pagare. All’inizio il quartiere offriva solo le ACLI e la Chiesa che a lui non interessava anche se la frequentò giusto il tempo in cui la figlia fece la prima comunione e la cresima. Una cosa che ricorda e a cui partecipò fu la raccolta nel quartiere della carta, per lui era importante fare qualcosa per il quartiere, per renderlo migliore.
Fa un mezzo sorriso quando dice:
Si diceva che il quartiere fosse una specie di Bronx che io personalmente non ho vissuto. So che nel palazzone, quello che hanno abbattuto, c’era gente che andava per vedere lo spettacolo, io non sono mai andato su, forse sono uno dei pochi, la gente ci andava per vedere questi corridoi lunghi come se fosse una galera, secondo me era difficile viverci là dentro, poi ci portarono tutta la gente sfollata dal Carmine, tutte situazioni un po’ al limite, seguite dai servizi sociali, misero tutta questa gente tutta insieme, cosa pretendi di ottenere? Io non ho mai capito la politica che hanno fatto. Quando lo hanno buttato giù abbiamo visto lo spettacolo di come si fa a demolire un dinosauro, ora stanno portando via tutta quella montagna di sabbia e non so dove va a finire, sarebbe da rifiuti speciali. –
Ora che è in pensione il quartiere lo gira in lungo e in largo con la bicicletta ed è l’unico quartiere che ha vissuto, prima nel condominio lavorava, tornava a casa, faceva un giro in città, però non è che vivesse il quartiere; invece, qua ha riferimenti più precisi. Poi qui ci sono tanti spazi verdi e Giuseppe appena può va in campagna, certe volte esce in bicicletta, costeggia i laghetti e si dirige verso Castenedolo; a volte arriva fino al lago di Garda. Spesso si aggrega a un gruppo di ciclisti che lui chiama “biciclettari” anche se i gruppi spesso lo deludono, forse perché a lui piace essere coinvolto personalmente. Dice:
A me piace qualche cosa dove ci si coinvolge personalmente, cosa penso io, cosa pensi tu, scambiarsi le opinioni serve a capire con chi hai a che fare, ti rendi conto come tante persone sulla stessa cosa hanno idee diverse e anche se sbagliano, sbagliano a fin di bene, perché la loro storia è così, è come con il libro del mese, io mi sono stufato ogni tanto di non dire niente, così mi son detto ora questa cosa la dico e l’ho detta… insomma, il protagonista è uno sconfitto! –
E poi sconfiniamo parlando di Dostoevskij, Tolstoj, Moravia, d’altra parte siamo in mezzo ai libri che lì, sugli scaffali ci guardano, sono stufi di aspettare, così spengo il registratore e continuiamo la conversazione che nulla ha a che vedere col tema di questa intervista.
Brescia, 14 febbraio 2023
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