da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” a cura di Lucia Marchitto
Non saprei dire perché conservo tante immagini di lei nella mia mente ma, appena entra in biblioteca, mi si affollano nella testa, una in particolare si fa avanti ed è lei che scende dal pullmino con in mano un vaso di gerani rossi.
Non so nemmeno perché la sua è una voce che non dimentico.
Forse perché è roca ma non flebile, forse perché è sempre così irruente, come una cascata d’acqua che si riversa con fragore nel vallone sottostante sprigionando schizzi di parole, come se a lungo avesse cercato di trattenerle.
Salendo le scale già inizia a parlare:
La mia vita è come un romanzo – dice.
Emma nasce nel 1950 a Serino in Provincia di Avellino, in Irpinia, è ultima di quattro figli, due sorelle e due fratelli. La madre muore giovane. All’età di quattordici anni emigra con il padre in America, nel New Jersey, dove sono accolti dallo zio, il fratello del padre. Frequenta la scuola e, dopo il diploma, decide di fare un viaggio in Italia, soprattutto al nord e quel giro turistico le piacque molto. Tornata in America iniziò a lavorare, dapprima ci furono lavori saltuari, poi arrivò l’assunzione presso una grossa azienda di assicurazioni ma fece un incidente, per tre mesi restò a casa in malattia e quando rientrò al lavoro fu licenziata. Capì che il sistema americano non le piaceva e decise di tornare in Italia non più come turista, qui iniziò a fare vari lavori impiegatizi a tempo determinato. Ricorda che in edicola comprava la rivista “Tutti i Concorsi” che era sempre esposta in bella vista. Molti Enti Pubblici assumevano personale per tre mesi, a chiamata diretta. Fu così che iniziò a lavorare a Como alle Intendenze di Finanza. Era molto felice perché il Nord le piaceva molto e Como era una bella città con un’atmosfera particolare. Si stabilì a Ponte Chiasso con altre ragazze meridionali, nel rievocare quel periodo inizia a ridere, ride di gusto e a lungo, e racconta:
C’era una tizia che faceva la bidella ed era andata a Chiasso, noi abitavamo a Ponte Chiasso, dall’altra parte della frontiera il paese si chiamava Chiasso, e si era rifornita di zucchero, caffè, dolci, cioccolata, perché doveva andare giù in meridione, arriva alla frontiera e non la fanno passare con tutte queste buste. Lei che fa? torna al negozio e lascia tutta la roba lì, poi viene a casa da noi dicendo:
“o Ragazze, aiuto, aiuto!!! Dovete venire con me perché così e così!”,
così partimmo in tre o quattro, andammo in questo negozio e poi al ritorno ognuna aveva una busta di zucchero, caffè, cioccolata… –
Arrotonda le o, allunga le parole, si riempie la bocca con l’elenco delle cose che la bidella aveva comprato e ride a lungo, ride talmente tanto che un poco sobbalza perfino il petto.
Intanto il lavoro alle Intendenze era terminato e si stava dando da fare per trovare un altro lavoro quando sua sorella da Serino le telefona per dirle che è arrivato un telegramma e che deve tornare giù. Era il 2 agosto 1980 quando prese il treno da Como a Milano e da Milano a Napoli. Quando giunse a casa scoprì che poche ore dopo che il suo treno era passato da Bologna una bomba aveva distrutto la stazione con 85 morti e 200 feriti. Era passata accanto alla morte.
Il destino a volte ci fa passare indenni tra gli orrori della storia, inconsapevoli viaggiatori ci spostiamo da un luogo all’altro, con bagagli diversi incontro alla vita, senza mai pensare che la morte ci ha sfiorato e ha deciso di girarsi dall’altra parte. Quando fece il viaggio inverso vide la devastazione della stazione. Brividi e dolore e rabbia, perché pensi che quello che successe non fu per un tremore della terra o per una qualsiasi catastrofe naturale, ma mani ignobili ammazzarono uomini donne e bambini. Una ferita mai rimarginata.
Restiamo un attimo in silenzio, anch’io ricordo quel giorno, a Bologna avevo degli amici, due erano ferrovieri e uno lavorava al bar della stazione. Ci si può immaginare cosa si è provato nel sentire la notizia.
Ma ora siamo qui, in questo posto, tra questi libri, tra le parole di Emma per raccontare la sua storia e un poco anche la storia di quest’Italia, di questa città, di questo quartiere, perché la storia siamo noi e nessuno la può cancellare.
Il telegramma era una comunicazione del Tribunale che l’avvisava di presentarsi a Como per prendere servizio, contemporaneamente arrivò un altro telegramma per l’assunzione nelle poste a Brescia. Dato che a Como era un lavoro per pochi mesi scelse Brescia perché alle poste l’assumevano a tempo indeterminato, ma si dimenticò di avvisare il Tribunale e pochi giorni dopo che lei aveva preso servizio si presentarono a Serino, da sua sorella, i carabinieri perché non si era presentata a Como, fece una dichiarazione di rinuncia e tutto si risolse nel migliore dei modi.
Alle poste fu assegnata all’ufficio centrale di Piazza Vittoria, molti impiegati erano meridionali per cui non ebbe difficoltà a inserirsi sul posto di lavoro. Alloggiò presso un convitto di suore che ancora oggi si trova vicino allo stabile dell’ex ospedale Fatebenefratelli.
Il giorno di ferragosto 1980 erano rimaste solo in tre nel convitto, lei, un’indiana che veniva da Calcutta e una ragazza di Reggio Calabria, decisero di andare sul lago di Garda, dapprima si recarono a Desenzano, poi presero il battello e arrivarono a Riva, era molto presto e in giro non c’era ancora nessuno, decisero quindi di andare a Bolzano con l’autostop, arrivarono nel pomeriggio in periferia, quindi furono costrette a fare ancora l’autostop per il centro, si fermò un bel giovanotto alto con una cinquecento rossa che trasportava sacchi di farina, lei si mise davanti perché era la più alta, e le altre due dietro. Tra lei e il ragazzo nacque subito una simpatia e ricorda ancora oggi la canzone che cantarono ascoltando la radio: “Tu fai schifo sempre” dei Pandemonium, che era stata presentata a Sanremo nel ’79. Quando arrivarono in centro, nell’allontanarsi, notò lo sguardo del ragazzo su di lei. Poteva nascere un amore, ma dovevano essere al convitto entro le dieci di sera, così rifecero l’autostop. Emma ha conservato quello sguardo e forse si chiede: come sarebbe stata la mia vita se fossi tornata indietro, se avessi risposto a quello sguardo?
Si fermò una macchina con due ragazzi meridionali, salirono ed ebbero molta paura perché non solo correvano come pazzi, ma dissero anche di volere qualcosa in cambio del passaggio, e qui inizia a ridere di nuovo di gusto, perché scoprirono che erano due poliziotti e le stavano prendendo in giro, era solo uno scherzo. Arrivarono alle 11 al convitto, aprì il portone una suora col ceppellino in testa e la sottana da notte, ci mancava solo una candela per avere una visione d’altri tempi, un poco buffa e molto arrabbiata, tanto che fece loro una paternale!
I suoi ricordi accendono i miei che tra il 1979 – 1980 praticai l’autostop e da Brescia arrivai fino a Parigi! Zaino e sacco a pelo in spalle e dito alzato, pochi soldi nelle tasche e tanta voglia di andare lontano, lontano. Ah, gioventù che passi in fretta e non torni più!
Le poste organizzavano gite per i propri dipendenti a cui lei partecipava spesso. Un giorno dovevano andare al lago della Vacca ma a metà salita lei e due sue colleghe, una napoletana e una calabrese, decisero di tornare indietro perché non ce la facevano a fare tutta quella salita. Arrivate al parcheggio, dissero all’autista del pullman che loro andavano a Bagolino e si sarebbero fatte trovare in centro dove avevano intenzione di andare a comprarsi un gelato. Fecero l’autostop e si fermò una grossa macchina con la vernice metallizzata! A quei tempi era una rarità. C’era l’autista e un passeggero ed erano anziani, parlando scoprirono che uno era il Presidente di Confindustria e l’altro era il proprietario della farmacia in corso Palestro. Giunti a Bagolino si fermarono davanti a un bar, diversi uomini erano seduti ai tavoli che, appena videro i due signori anziani, si alzarono e si spostarono con riverenza per farli passare. Poi arrivò il pullman e se ne tornarono a Brescia.
Nel luglio del 1983 le fu assegnato l’appartamento all’undicesimo piano nella torre di via Tiziano ma andò ad abitarci soltanto qualche mese dopo perché così comprò con calma tutto il mobilio.
La prima volta che si affacciò dal balcone rimase affascinata dal panorama e quando sentì i campanelli e vide quel gregge enorme di pecore si sentì gioire dalla meraviglia, tutt’intorno erano prati e prati e pecore e lei lì, sulla torre a guardare!
Quando sono arrivata a San Polo le villette c’erano già, non c’era quel palazzetto dove adesso c’è l’Euro Spin, quello era tutto un prato e venivano a pascolare le pecore, vedevo questo gregge che non so da dove arrivava, quasi tutti i giorni d’estate pascolava, per me era una gioia vedere dalla finestra tutte queste pecore, con i campanelli che suonavano! Erano tutti campi, non c’era il centro Mela e neanche il centro Margherita. E non c’erano neanche le villette a schiera dietro la cascina Maggia, né il centro sportivo, era tutto prato, tutta campagna, alla cascina Maggia c’erano le mucche e solo un viottolo, una strada sterrata per arrivarci, e io mi ricordo che passavo di là per fare una passeggiata e mi divertivo a vedere queste mucche tutte là che mangiavano, era una cascina vera e propria. Non c’era neanche la chiesa, e andavo alla chiesa di via Duca degli Abruzzi. –
Mentre lo racconta la meraviglia si accende nei suoi occhi scuri, forse le greggi le ricordavano l’infanzia, forse, girovaga come era stata, non pensava di trovare un paesaggio così in una città, una città industriale quale era ed è Brescia. Non se lo aspettava dopo tre anni vissuti in centro storico.
Muove le mani, si tocca le orecchie, poi allarga le braccia come a voler abbracciare la visione di tutte quelle greggi e nel fare ciò un altro ricordo le torna alla mente. L’anno è il 1985, è inverno, è gennaio, metà gennaio, suona la sveglia, Emma si alza, si prepara per il lavoro, apre la finestra e scopre che il mondo è diventato tutto bianco. In strada ci sono novanta centimetri di neve, l’autobus non passa, sono un gruppetto di persone che l’attendono invano per andare al lavoro in centro, quando capiscono che non passerà si avviano a piedi in mezzo a tutta quella neve. Ricorda le chiacchiere e le risate, e le scivolate, la gioia anche di tutta quella neve.
È arrivata una ragazzina, ci guarda, si siede al tavolo dietro il nostro, si alza, gesticola, è impaziente, capisco che vuol parlare con me, ma Emma le dà le spalle, non la vede, e continua a ridere ricordando la neve e le chiacchiere, quando finisce di ridere si fa improvvisamente seria e dice che nel quartiere manca un punto d’incontro, una piazza dove ritrovarsi:
Mi piacerebbe cambiare qualcosa nel quartiere perché vedo che la gente ha voglia di stare insieme, però non c’è un punto di riferimento, una piazza, perché sì, c’è il parco, ma poche panchine, certo c’è la cascina Riscatto però le iniziative che fanno non sono molto pubblicizzate le vedi soltanto se vai vicino al cancello a leggere i fogli attaccati, dovrebbero metterli dove la gente passa. Poi giocano a carte e a me non piace, mi piace parlare con le persone così come stiamo facendo adesso io e te, perché solo parlando ci si conosce. –
Anche Emma si accorge della ragazzina, si alza, le lascio il mio numero di telefono, ci salutiamo con il proposito di risentirci, la ragazza prende il suo posto: aspettava proprio me.
Brescia, 2 marzo 2023
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