Categoria: Coltiviamo la memoria

  • Giuseppe e il tempo

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” di Lucia Marchitto

    Giuseppe abita in una villetta a schiera in via Robusti che si trova, rispetto a via Tiziano, dall’altra parte di via San Polo, ricordo che c’era la torre del Tintoretto proprio di fronte alla schiera, era un posto un tantino sporco e quando lo guardavo pensavo alla miseria, mi sembrava che brulicasse intorno a quel palazzo una povertà cui non ero avvezza, sebbene io abbia vissuto un’infanzia priva di ricchezza. Ora che è stata demolita l’area è delimitata, è un grande spazio vuoto, eppure in quello spazio ancora persiste l’immagine della torre con gli oblò, ed è quella l’immagine che ha fatto nascere intorno al quartiere la narrazione di un posto invivibile, di una periferia degradata. Non solo la Tintoretto ma anche le altre quattro torri: Cimabue, Michelangelo, Raffaello, Tiziano. Nomi di grandi artisti, grandi pittori, tranne Tintoretto sono tutti del Rinascimento. Forse si voleva onorare i grandi conquistando il cielo? Per conquistare il cielo si è dimenticati della terra e dei suoi abitanti. Mi viene in mente una frase del mio professore di italiano delle medie: l’uomo per vivere ha bisogno di spazio. C’era spazio in quegli appartamenti?
    Quando vidi per la prima volta il quartiere pensai che chi aveva costruito avesse voluto dargli l’impronta, dire ecco ti trovi in un quartiere popolare, tutto quel cemento esposto, quei muri alti! Quando vidi le torri per la prima volta pensai alle piccionaie, svettano nel cielo dominando casette a schiera, a spina e a case alte: una rinascita senza bellezza.
    Con Giuseppe oggi ci incontriamo in biblioteca.
    Entriamo, salutiamo Luigi e saliamo al piano di sopra col passo sicuro di chi conosce bene il luogo, d’altra parte io e Giuseppe facciamo parte del gruppo di lettura che qui, ogni secondo mercoledì del mese, a tarda sera, si riunisce da anni.
    Eppure, appena entrata nella sala ho come l’impressione di essere in un posto nuovo: c’è qualcosa di diverso nell’essere qui, oggi, innanzitutto c’è la luce del giorno che cade dalla finestra, mi rendo conto che la luce illuminando questa sala, vissuta sempre di sera la rende improvvisamente sconosciuta e i libri sugli scaffali paiono in attesa, come noi due che aspettiamo le parole dell’una e le storie dell’altro.

    Ci togliamo i cappotti, ci sediamo di fronte, Giuseppe è un poco discosto dal tavolo, ha le gambe distese e appoggia la schiena alla sedia che è leggermente girata verso la finestra, tanto che riesco a vedere persino le scarpe, in una posa che appare rilassata e pronta all’ascolto più che al racconto. Tiro fuori quaderno, penna, schiaccio il pulsante del registratore, mi avvicino al tavolo lasciando spazio tra me e lo schienale della sedia, Giuseppe ha una voce flebile, a volte pare un sussurro, e io confido molto nel registratore per conservare al meglio le sue parole.

    Giuseppe nasce in un comune della provincia di Avellino, in Irpinia, nell’anno 1950, suo padre oltre a coltivare le terre era responsabile dell’acquedotto presso il comune. La madre, casalinga, come tutte le donne del paese faceva il pane in casa utilizzando il cresci, il lievito che passava di casa in casa.
    Il tempo al paese non era un’ossessione, dice Giuseppe:

    Una volta uno si alzava la mattina, all’alba, faceva quello che doveva fare e quando faceva notte se ne tornava a casa, non è che calcolasse il tempo, non calcolava quanto ci avesse messo a fare questo e quello. Adesso è tutto in rapporto col tempo, quanto ci hai messo a fare questo e quell’altro e la sera sei stressato, sei stanco.
    Il tempo lo hanno inventato gli uomini per sfruttare il lavoro degli altri uomini.
    Oggi siamo presi dalle nostre comodità, io dico sempre che da quando è venuta fuori la ricchezza diffusa con tutte le comodità ci ha fatto perdere il significato delle cose, forse è per questo che mi piace lavorare con le mani perché il lavoro manuale ti mette a contatto con la realtà. –
    Si diplomò maestro d’arte e iniziò a fare anche una supplenza in Irpinia, un caso, perché lì o eri raccomandato o non trovavi lavoro e fu per questo motivo che fece domande nelle scuole del Nord Italia e quando lo chiamarono a Brescia, per insegnare arte nelle scuole, accettò di buon grado perché conosceva la città in quanto vi aveva svolto il servizio militare.
    All’inizio trovò alloggio presso una piccola pensione per ragazzi del Sud in centro città, vicino al Coin, dopo si trasferì in via Ducco con un altro ragazzo, poi conobbe una ragazza, si sposò e andò ad abitare in via Tosoni, al terzo piano senza ascensore, dietro l’ospedale civile. Un giorno incontrò un amico che stava comprando casa a San Polo e gli disse:

    Perché non comprate pure voi così andiamo ad abitare vicino? –
    Il fatto di non avere soldi e che i tassi di interessi sul mutuo erano molto alti non impedì alla giovane coppia di iscriversi alla cooperativa che doveva costruire un condominio orizzontale con relativi giardinetti in via Robusti. I futuri inquilini si affidarono a un ingegnere e forse fu un bene, anche se ovviamente anche l’ingegnere volle la sua parte, perché ci furono persone che si affidarono a delle cooperative, pagarono e delle case non se ne seppe più niente.
    C’era anche la questione dell’Alfa Acciai che fu discussa tra i futuri acquirenti, ma il prezzo della casa era buono e ragionando sull’inquinamento si dedusse che questo non è che sta fermo, va dove lo spinge l’aria.
    Quando andò a vedere il posto c’era ancora il granturco, poi tutto fu lottizzato con la costruzione anche di due palazzoni e il posto si riempì di gente. Nella sua schiera, una ventina di proprietari erano impiegati del Sud. Chi si iscriveva alla Cooperativa doveva accettare le soluzioni che cadevano dall’alto e tutto venne fatto al risparmio. Costruirono anche due palazzoni: Tintoretto e Cimabue, il primo è stato abbattuto e al suo posto c’è un cumulo di terra.
    Giuseppe parla così lieve, con la testa un poco abbassata con il mento che sfiora il petto, se non fosse che ogni tanto si giri verso di me si potrebbe dire che stia facendo un monologo.
    Erano una giovane coppia in una casa nuova in cui subito si trovarono bene anche se avevano il mutuo da pagare. All’inizio il quartiere offriva solo le ACLI e la Chiesa che a lui non interessava anche se la frequentò giusto il tempo in cui la figlia fece la prima comunione e la cresima. Una cosa che ricorda e a cui partecipò fu la raccolta nel quartiere della carta, per lui era importante fare qualcosa per il quartiere, per renderlo migliore.
    Fa un mezzo sorriso quando dice:

    Si diceva che il quartiere fosse una specie di Bronx che io personalmente non ho vissuto. So che nel palazzone, quello che hanno abbattuto, c’era gente che andava per vedere lo spettacolo, io non sono mai andato su, forse sono uno dei pochi, la gente ci andava per vedere questi corridoi lunghi come se fosse una galera, secondo me era difficile viverci là dentro, poi ci portarono tutta la gente sfollata dal Carmine, tutte situazioni un po’ al limite, seguite dai servizi sociali, misero tutta questa gente tutta insieme, cosa pretendi di ottenere? Io non ho mai capito la politica che hanno fatto. Quando lo hanno buttato giù abbiamo visto lo spettacolo di come si fa a demolire un dinosauro, ora stanno portando via tutta quella montagna di sabbia e non so dove va a finire, sarebbe da rifiuti speciali. –
    Ora che è in pensione il quartiere lo gira in lungo e in largo con la bicicletta ed è l’unico quartiere che ha vissuto, prima nel condominio lavorava, tornava a casa, faceva un giro in città, però non è che vivesse il quartiere; invece, qua ha riferimenti più precisi. Poi qui ci sono tanti spazi verdi e Giuseppe appena può va in campagna, certe volte esce in bicicletta, costeggia i laghetti e si dirige verso Castenedolo; a volte arriva fino al lago di Garda. Spesso si aggrega a un gruppo di ciclisti che lui chiama “biciclettari” anche se i gruppi spesso lo deludono, forse perché a lui piace essere coinvolto personalmente. Dice:

    A me piace qualche cosa dove ci si coinvolge personalmente, cosa penso io, cosa pensi tu, scambiarsi le opinioni serve a capire con chi hai a che fare, ti rendi conto come tante persone sulla stessa cosa hanno idee diverse e anche se sbagliano, sbagliano a fin di bene, perché la loro storia è così, è come con il libro del mese, io mi sono stufato ogni tanto di non dire niente, così mi son detto ora questa cosa la dico e l’ho detta… insomma, il protagonista è uno sconfitto! –
    E poi sconfiniamo parlando di Dostoevskij, Tolstoj, Moravia, d’altra parte siamo in mezzo ai libri che lì, sugli scaffali ci guardano, sono stufi di aspettare, così spengo il registratore e continuiamo la conversazione che nulla ha a che vedere col tema di questa intervista.


    Brescia, 14 febbraio 2023

  • Rita – Noi donne abbiamo fatto l’Italia  

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” di Lucia Marchitto

    È presto, sono le nove del mattino, prendo la borsa, il quaderno, la penna e mi avvio per la strada asfaltata, arrivo dove c’era la cabina, attraverso, passo sotto il cavalcavia e sbuco nel parco dedicato a Fabrizio De André.

    Non c’è nessuno per strada.

    Pare un mondo addormentato.

    Suono il campanello, si affaccia, mi saluta invitandomi ad entrare, attraverso il giardino, entro nella piccola sala e Rita mi accoglie con un sorriso, mi fa accomodare, e io non riesco a distogliere lo sguardo da due grandi fotografie in bianco e nero appese alla parete, in una c’è il primo piano di una giovane donna che pare nell’atto di voltarsi verso chi entra accogliendo con un sorriso il visitatore, nell’altra ci sono quattro bambini di diverse altezze, sono in fila, dal più piccolo al più grande: pare una scala su cui gli occhi che guardano si spostano per arrivare al volto della madre che li mostra al mondo in una posa che ricorda un quadro d’artista.

    Ho la sensazione che il passato mi guardi e si racconti nella semplicità che si è svestita dei colori per mostrare l’essenziale. Appena sotto le fotografie c’è Rita.

    -          Sei tu? – dico indicando la prima foto.

    -          Sì, ora ho ottant’anni, e questa, dice indicando la seconda, è mia madre con noi figli. –

    Sottolinea che ha ottant’anni guardandomi dritta negli occhi come a dire: questa è la vera me stessa, quella nella foto non esiste più.

    Si siede. Inizia a parlare, con urgenza quasi, come se volesse dire che da quelle fotografie è passato un sacco di tempo, e che in quel tempo lei ha vissuto e continua a vivere non stando mai ferma, che la vita è movimento, azioni che si susseguono l’una all’altra incessantemente, che il tempo del racconto è ora, in questo momento, dentro questa stanza, dentro questa casa da cui è già uscita questa mattina per andare a comprare il pane, il suo rito quotidiano, e che ha già tutto il programma pronto per l’intera giornata. Sono pronti i sacchi da portare in discarica, sacchi che ha riempito con le “robe” che tanti lasciano vicino ai cassonetti.

    -          Sono arrivata nel quartiere il 1° luglio 1995. Abitavo in una casa in affitto a Villaggio Prealpino, poi il proprietario la mise in vendita e dovetti cercarmene un’altra. L’Aler mi propose un appartamento al secondo piano di San Polo. Quando sentii San Polo mi si rizzarono i capelli, poi al secondo piano voleva dire che c’era l’ascensore e io odio i condomini e soprattutto odio gli ascensori, tra l’altro avrei preferito spostarmi a San Bartolomeo perché era più vicino a dove abitavo. La Signora dell’Aler però mi fece presente che lì non c’era il teleriscaldamento e così accettai. Quando mi fu comunicato la via e il numero civico chiamai mia cugina che abitava e abita in via Tiziano, che, felice, mi venne a prendere e mi accompagnò, dapprima cercammo l’appartamento nel condominio che c’è qui in questa via e lo trovammo murato. La Signora poi mi spiegò che facevano in quel modo per evitare l’occupazione abusiva. Il fatto era che quello che mi avevano assegnato non era l’appartamento nel condominio ma questa casa! Quando vidi il giardino e scoprii che c’era anche il garage e la cantina fui veramente contenta. Una casetta tutta mia! Con la sala, un cucinino, il bagno, lo sgabuzzino, due camere sotto e un’altra al piano di sopra! Io ero sola perché mio figlio stava col mio ex marito in quel periodo. Siamo sempre andati d’accordo io e lui tant’è che andai anche al suo secondo matrimonio, e con la sua sposa c’è sempre stata una buona intesa, ora che lui è morto, al mio compleanno e a quello di mio figlio lei, la sua seconda moglie, ci porta sempre al ristorante. –

    Si illumina tutta quando pensa alla sorpresa di trovare questa casa, ha due occhi scuri, uno sguardo vispo, sopracciglia disegnate a matita. Poi inizia a parlare della sua attività lavorativa che fino ai trent’anni ha svolto in fabbrica e dopo ha fatto la cuoca nelle mense, spostandosi da un posto all’altro, la mandavano dove c’era bisogno, andò a Cremona, Mantova, Pavia per dire, non aveva paura di affrontare viaggi e nuovi ambienti di lavoro. Le piaceva guidare. Si alza, va verso la parete di fronte dove, a differenza dell’altra parete, ci sono solo fotografia a colori, me ne indica una che ritrae una donna sorridente al volante di una macchina.

    -          Anche questa sono io! – dice con enfasi.

    Mi guardo intorno, tutte le pareti sono piene di fotografie, mi mostra il figlio, la nuora, la nipote che le è così cara, ed è con orgoglio che mi mostra dei disegni fatti dalla sua nipotina, è così brava a disegnare tanto che ha vinto un premio e una borsa di studio partecipando a un concorso per piccoli artisti.

    Si siede di nuovo, quasi sotto la foto in bianco e nero, mi pare che passato e presente si incontrino concentrandosi nei suoi occhi, mi sembra che la giovane donna del ritratto si trasformi man mano che prosegue il racconto, fino a diventare la signora di ottant’anni che mi guarda con i suoi occhi vispi e la voce allegra.

    Sostiene che nel quartiere non va da nessuna parte se non a messa, al Margherita d’Este, nei negozi, e ogni tanto alla pizzeria L’incontro. Quando gira per il quartiere si ferma a chiacchierare con le persone che incontra ma non va mai a casa degli altri, perché sua madre le diceva “Mai andare a casa degli altri!” Fa delle belle passeggiate per i parchi, quando aveva il cane faceva anche quindici chilometri tutti i giorni, partendo dal parco Fabrizio De André arrivava alla Poliambulanza, percorreva via Duca Degli Abruzzi e tornava a casa. Nel pomeriggio insieme a una sua amica, andava all’Adrian Pam, proseguiva per Parco Ducos, via Gatti arrivando a Sant’Eufemia poi tornava indietro. Altre volte lei, la sua amica e i due cani andavano e tornavano a piedi fino al castello di Brescia.

    Un’ombra di tristezza appare sul suo viso, scuote un poco la testa nel dire:

    -          Sai quante camminate ho fatto col mio Dylan! Te lo ricordi sicuramente! Di quando è morto è meglio non parlarne sennò mi viene ancora il magone! Ma non ho mai pensato di prendere un altro cane, sai l’età, e poi costa anche un po’ di soldi. Sono pensionata e non mi dà niente nessuno e non chiedo niente a nessuno, vivo con la mia pensione! –

    Me la ricordo quando la incontravo con il cane, un labrador, le camminava a fianco senza guinzaglio, mai che abbaiasse o che si mettesse a correre, teneva il passo della padrona.

    Nel quartiere si è sempre trovata bene. Vicino al Gazebo, dove c’è il campo da bocce e gli orti vede sempre tanti ragazzi, non sa se combinano qualcosa, ma non le hanno mai dato fastidio. Ricorda che, quando ancora non c’era la metropolitana, dietro gli orti si riunivano dei drogati, avevano una panchina con un telo e, in parte, avevano messo un bidone dove raccoglievano la spazzatura, lei passando si fermava:

    -            Buongiorno signora, dicevano, anche se erano lì in sette o otto, mi fermavo a chiacchierare insieme, non c’è stato mai uno che mi abbia detto una parola fuori posto. Per quello io anche in giro non ho mai avuto problemi, sarà che io sono un tipo …! –

    Non finisce la frase, muove un poco le mani, si tocca il viso e forse per definire che tipo di persona è, racconta che la mattina, quando va a comprare il pane, se ha cinquanta centesimi che le avanzano li dà a un ragazzo che se ne sta spesso vicino al fornaio, anche al Signore di colore che ha il banchetto con le robe davanti all’Euro Spin dà qualche spicciolo e a Natale anche due o tre euro, ogni tanto gli porta la cioccolata, un pacchetto di biscotti, un po’ di frutta. Anche quando va al Margherita D’Este incontra un altro bisognoso a cui rivolge parole gentili e un poco di carità.

    -          C’è sempre un senzatetto con la barba, scuro, poverino, anziano, avrà … però non cerca niente a nessuno, allora certe volte, quando vado là mi siedo sulla panchina, lui si alza per farmi posto, io anche l’altro giorno gli ho detto:

    – Si sieda che c’è posto per tutti e due! –

    – Non vorrei disturbare! –

    – Ma si figuri! –

    Si è seduto e ci siamo messi a parlare. Ma io quando lo vedo fuori appoggiato al muro… ma io lo saluto sempre, gli dico due parole, anche se non cerca i soldi io glieli do. Poi c’è un altro sull’angolo. Però non posso dare a tutti, ho l’affitto, le bollette … io son poveretta, non è che posso a tutti … –

    Sospira, fa un gesto di impotenza mista a tristezza poi si riscuote e riprende a parlare veloce, veloce, le cose che ha da dire sono ancora tante, non vuole dimenticare niente, forse.

    Racconta che vicino ai cassonetti c’è sempre roba sparsa per terra, anche molta bella, a volte scarpe nuove, vestiti, persino coperte, lei divide gli indumenti mettendoli nei sacchi, quello scempio è fatto da gente che passa per strada. Una volta selezionata la roba porta quella brutta in discarica e quella bella a Leno dove c’è la Caritas, un grande capannone con tante lavatrici, ci sono le donne volontarie che selezionano i capi, attaccano i bottoni mancanti, li lavano, li stirano e li dispongono sugli scaffali o sugli attaccapanni. Quando si presenta qualcuno che ha bisogno gli chiedono cosa gli serve, vestiti coperte o scarpe. Gli chiedono che taglia ha, che colore preferisce, gli danno quello di cui ha bisogno senza esagerare perché sanno che se è troppa o non gli va bene la roba poi la buttano.

    -          Io porto le cose belle che trovo alla Caritas, giù là (vicino ai cassonetti) c’è roba bella che buttano, poi si lamentano, noi siamo abituate perché cresciute in un altro mondo, noi abbiamo fatto l‘Italia col nostro lavoro! Noi donne – dice con orgoglio – abbiamo fatto l’Italia! –

    Tira un sospiro, guarda me, poi in alto, sembra raccogliersi nel silenzio improvviso, dalla posizione in cui mi trovo vedo il suo viso e dietro di lei appena un poco più in alto la fotografia che la ritrae giovane e ho la sensazione che il passato mi guardi e tracci una linea col presente attraverso la sua voce. Si riscuote, mi guarda, guarda la stanza, dice che ha comprato la cucina nuova, si alza per mostrarmela, io spengo il registratore, la seguo, guardiamo la cucina poi mi fa vedere tutta la casa. In una stanzetta le pareti sono piene di fotografie, alcune in bianco e nero, di un formato piccolissimo, la ritraggono nel giorno del suo matrimonio, su un mobile sono allineati come soldatini i volti di numerose persone, lei li sfiora un poco con le dita, nominandoli, uno, a uno, dice:

    -        Sono tutti morti! – Eppure, a me sembrano tutti così vivi, tutti ancora lì a vivere attraverso il suo sguardo, sotto le carezze delle sue dita, nella voce che li chiama per nome.

    La saluto, esco con la promessa di tornare a trovarla.

    Il mondo nel frattempo si è svegliato, e io cammino in mezzo al verde del parco, mi accompagna la storia di Rita, le parole così leggere volano tra i rami, cinguettano come uccelli.

    Brescia, 6 febbraio 2023

  • Viaggio in Periferia – Claudia e i tramonti 

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” di Lucia Marchitto

    Claudia ha gli occhi neri con lunghe ciglia, un sorriso dolce e una voce fine, è alta, slanciata, è una donna di trentasei anni, ma per me che la conosco da quando è nata, anzi da prima, quando ancora era nella pancia, è ancora una ragazzina. Non è cambiata molto la sua bellezza nel tempo, non ha un filo di trucco, le olive nere dei suoi occhi incantano e la voce fine, direi melodiosa, ti ispira all’ascolto. Ha i capelli lunghi che spesso sposta dietro un orecchio per portarli tutti insieme sul lato opposto, inclinando un poco la testa, in un gesto che scopre il collo e fa venire in mente i quadri di Modigliani. Sembra illuminarsi tutta quando dice:

    -          Io amo il mio lavoro e i miei alunni! –

    Claudia è una maestra ed insegna qui, nel quartiere, qui dove ha frequentato la scuola elementare e le medie, dove ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza ed è tornata dopo aver girato il mondo, nello stesso condominio, allo stesso piano, nello stesso appartamento.

    -          È così comodo! – dice – Qui ho tutto ciò che mi serve! Persino l’ospedale della Poliambulanza! ci posso andare a piedi per dire, e a piedi o in bicicletta arrivo in centro città. E poi nel mio palazzo mi sento al sicuro, perché non sono mai sola. Ricordo quando è nato il mio secondo figlio, piangeva giorno e notte, ero distrutta, sull’orlo di una crisi di nervi, avevo bisogno di un’oretta di riposo, così lo presi in braccio, salii al piano di sopra, bussai alla porta, lo consegnai alla mia vicina che conosco da quando sono nata, e glielo affidai. So che in qualsiasi momento posso contare sui miei vicini. Ora, tra l’altro, si sono trasferiti al piano di sotto anche i miei genitori, così loro aiutano me e io aiuto loro. –

    Ogni angolo di strada racconta la sua vita, I parchi dove ha giocato da bambina e dove ora ci porta i suoi figli, il parco Ducos due che è cresciuto insieme a lei e a tutte le piante che stanno sotto e intorno al palazzo. Ricorda in particolare un bar dove si incontrava con gli amici per giocare a Flipper, le lunghe scorribande in bicicletta da via Brunelleschi passando per la stradina in mezzo ai campi che una volta tagliava dritta non essendoci ancora la metropolitana, costeggiava le scuole e il piccolo boschetto per sbucare nel Parco dei Popoli proseguendo poi verso la biblioteca attraversava il parco Fabrizio De André e arrivava qui in via Tiziano dove aveva gli amici, in un continuo andare e venire da via Brunelleschi a via Tiziano e viceversa.

    Ma se gli angoli di strada ne raccontano la vita la sua casa allarga l’orizzonte. Affacciandosi a una delle finestre vede il monte Maddalena: di giorno il verde dei boschi e di notte le luci e la tomba del cane che tanto affascina giovani e vecchi per la sua storia incerta.

    La casa si fa racconto e memoria quando le viene in mente il nonno che dalla Calabria giungeva a Brescia portando affetto e un sapore di mare e che, affacciandosi alla finestra di sera nel vedere le luci sulla montagna, diceva: – Mi pare un presepe! –

    Ora Claudia passeggia spesso nei campi da sola o con i suoi due bimbi e le capita, a volte, di osservare il Castello stagliarsi netto sulla collina del Cidneo, dice: Il nostro stupendo castello che mi ricorda i film di Fantaghirò! – Lo dice sorridendo con quel sorriso che luccica tra le pupille scure.

    La cosa che le piace di più è ammirare i tramonti dal balcone di casa insieme a sua cugina. Sull’orizzonte, oltre la Poliambulanza, lì dove terra e cielo si uniscono, tutto s’infiamma, a volte di rosso intenso, a volte di giallo oro, altre volte ancora, quando i raggi si infilano tra le nuvole piccole e leggere, in fila come pecorelle, il cielo appare rosato. Ogni tramonto è diverso ma la fascinazione è sempre la stessa.

    Stanno lì, insieme, sul balcone, in via Brunelleschi, a San Polo – Brescia, ad ammirare il tramonto con i rossi, i gialli, gli aranci che si sbiadiscono o si scuriscono, s’illuminano o si spengono piano. In quei tramonti ogni cosa si placa, il giorno che muore, la notte che avanza, il sogno e l’attesa di un’alba.

    Claudia è sul balcone ad ammirare i tramonti e ha dentro gli occhi la meraviglia.

    Brescia, 23 gennaio 2023