Autore: Giorgio Gregori

  • Emma – Epopea di un viaggio

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” di Lucia Marchitto


    Non saprei dire perché conservo tante immagini di lei nella mia mente ma, appena entra in biblioteca, mi si affollano nella testa, una in particolare si fa avanti ed è lei che scende dal pullmino con in mano un vaso di gerani rossi.
    Non so nemmeno perché la sua è una voce che non dimentico.
    Forse perché è roca ma non flebile, forse perché è sempre così irruente, come una cascata d’acqua che si riversa con fragore nel vallone sottostante sprigionando schizzi di parole, come se a lungo avesse cercato di trattenerle.
    Salendo le scale già inizia a parlare:

    La mia vita è come un romanzo – dice.
    Emma nasce nel 1950 a Serino in Provincia di Avellino, in Irpinia, è ultima di quattro figli, due sorelle e due fratelli. La madre muore giovane. All’età di quattordici anni emigra con il padre in America, nel New Jersey, dove sono accolti dallo zio, il fratello del padre. Frequenta la scuola e, dopo il diploma, decide di fare un viaggio in Italia, soprattutto al nord e quel giro turistico le piacque molto. Tornata in America iniziò a lavorare, dapprima ci furono lavori saltuari, poi arrivò l’assunzione presso una grossa azienda di assicurazioni ma fece un incidente, per tre mesi restò a casa in malattia e quando rientrò al lavoro fu licenziata. Capì che il sistema americano non le piaceva e decise di tornare in Italia non più come turista, qui iniziò a fare vari lavori impiegatizi a tempo determinato. Ricorda che in edicola comprava la rivista “Tutti i Concorsi” che era sempre esposta in bella vista. Molti Enti Pubblici assumevano personale per tre mesi, a chiamata diretta. Fu così che iniziò a lavorare a Como alle Intendenze di Finanza. Era molto felice perché il Nord le piaceva molto e Como era una bella città con un’atmosfera particolare. Si stabilì a Ponte Chiasso con altre ragazze meridionali, nel rievocare quel periodo inizia a ridere, ride di gusto e a lungo, e racconta:

    C’era una tizia che faceva la bidella ed era andata a Chiasso, noi abitavamo a Ponte Chiasso, dall’altra parte della frontiera il paese si chiamava Chiasso, e si era rifornita di zucchero, caffè, dolci, cioccolata, perché doveva andare giù in meridione, arriva alla frontiera e non la fanno passare con tutte queste buste. Lei che fa? torna al negozio e lascia tutta la roba lì, poi viene a casa da noi dicendo:
    “o Ragazze, aiuto, aiuto!!! Dovete venire con me perché così e così!”,
    così partimmo in tre o quattro, andammo in questo negozio e poi al ritorno ognuna aveva una busta di zucchero, caffè, cioccolata… –
    Arrotonda le o, allunga le parole, si riempie la bocca con l’elenco delle cose che la bidella aveva comprato e ride a lungo, ride talmente tanto che un poco sobbalza perfino il petto.
    Intanto il lavoro alle Intendenze era terminato e si stava dando da fare per trovare un altro lavoro quando sua sorella da Serino le telefona per dirle che è arrivato un telegramma e che deve tornare giù. Era il 2 agosto 1980 quando prese il treno da Como a Milano e da Milano a Napoli. Quando giunse a casa scoprì che poche ore dopo che il suo treno era passato da Bologna una bomba aveva distrutto la stazione con 85 morti e 200 feriti. Era passata accanto alla morte.
    Il destino a volte ci fa passare indenni tra gli orrori della storia, inconsapevoli viaggiatori ci spostiamo da un luogo all’altro, con bagagli diversi incontro alla vita, senza mai pensare che la morte ci ha sfiorato e ha deciso di girarsi dall’altra parte. Quando fece il viaggio inverso vide la devastazione della stazione. Brividi e dolore e rabbia, perché pensi che quello che successe non fu per un tremore della terra o per una qualsiasi catastrofe naturale, ma mani ignobili ammazzarono uomini donne e bambini. Una ferita mai rimarginata.
    Restiamo un attimo in silenzio, anch’io ricordo quel giorno, a Bologna avevo degli amici, due erano ferrovieri e uno lavorava al bar della stazione. Ci si può immaginare cosa si è provato nel sentire la notizia.
    Ma ora siamo qui, in questo posto, tra questi libri, tra le parole di Emma per raccontare la sua storia e un poco anche la storia di quest’Italia, di questa città, di questo quartiere, perché la storia siamo noi e nessuno la può cancellare.
    Il telegramma era una comunicazione del Tribunale che l’avvisava di presentarsi a Como per prendere servizio, contemporaneamente arrivò un altro telegramma per l’assunzione nelle poste a Brescia. Dato che a Como era un lavoro per pochi mesi scelse Brescia perché alle poste l’assumevano a tempo indeterminato, ma si dimenticò di avvisare il Tribunale e pochi giorni dopo che lei aveva preso servizio si presentarono a Serino, da sua sorella, i carabinieri perché non si era presentata a Como, fece una dichiarazione di rinuncia e tutto si risolse nel migliore dei modi.
    Alle poste fu assegnata all’ufficio centrale di Piazza Vittoria, molti impiegati erano meridionali per cui non ebbe difficoltà a inserirsi sul posto di lavoro. Alloggiò presso un convitto di suore che ancora oggi si trova vicino allo stabile dell’ex ospedale Fatebenefratelli.
    Il giorno di ferragosto 1980 erano rimaste solo in tre nel convitto, lei, un’indiana che veniva da Calcutta e una ragazza di Reggio Calabria, decisero di andare sul lago di Garda, dapprima si recarono a Desenzano, poi presero il battello e arrivarono a Riva, era molto presto e in giro non c’era ancora nessuno, decisero quindi di andare a Bolzano con l’autostop, arrivarono nel pomeriggio in periferia, quindi furono costrette a fare ancora l’autostop per il centro, si fermò un bel giovanotto alto con una cinquecento rossa che trasportava sacchi di farina, lei si mise davanti perché era la più alta, e le altre due dietro. Tra lei e il ragazzo nacque subito una simpatia e ricorda ancora oggi la canzone che cantarono ascoltando la radio: “Tu fai schifo sempre” dei Pandemonium, che era stata presentata a Sanremo nel ’79. Quando arrivarono in centro, nell’allontanarsi, notò lo sguardo del ragazzo su di lei. Poteva nascere un amore, ma dovevano essere al convitto entro le dieci di sera, così rifecero l’autostop. Emma ha conservato quello sguardo e forse si chiede: come sarebbe stata la mia vita se fossi tornata indietro, se avessi risposto a quello sguardo?
    Si fermò una macchina con due ragazzi meridionali, salirono ed ebbero molta paura perché non solo correvano come pazzi, ma dissero anche di volere qualcosa in cambio del passaggio, e qui inizia a ridere di nuovo di gusto, perché scoprirono che erano due poliziotti e le stavano prendendo in giro, era solo uno scherzo. Arrivarono alle 11 al convitto, aprì il portone una suora col ceppellino in testa e la sottana da notte, ci mancava solo una candela per avere una visione d’altri tempi, un poco buffa e molto arrabbiata, tanto che fece loro una paternale!
    I suoi ricordi accendono i miei che tra il 1979 – 1980 praticai l’autostop e da Brescia arrivai fino a Parigi! Zaino e sacco a pelo in spalle e dito alzato, pochi soldi nelle tasche e tanta voglia di andare lontano, lontano. Ah, gioventù che passi in fretta e non torni più!
    Le poste organizzavano gite per i propri dipendenti a cui lei partecipava spesso. Un giorno dovevano andare al lago della Vacca ma a metà salita lei e due sue colleghe, una napoletana e una calabrese, decisero di tornare indietro perché non ce la facevano a fare tutta quella salita. Arrivate al parcheggio, dissero all’autista del pullman che loro andavano a Bagolino e si sarebbero fatte trovare in centro dove avevano intenzione di andare a comprarsi un gelato. Fecero l’autostop e si fermò una grossa macchina con la vernice metallizzata! A quei tempi era una rarità. C’era l’autista e un passeggero ed erano anziani, parlando scoprirono che uno era il Presidente di Confindustria e l’altro era il proprietario della farmacia in corso Palestro. Giunti a Bagolino si fermarono davanti a un bar, diversi uomini erano seduti ai tavoli che, appena videro i due signori anziani, si alzarono e si spostarono con riverenza per farli passare. Poi arrivò il pullman e se ne tornarono a Brescia.
    Nel luglio del 1983 le fu assegnato l’appartamento all’undicesimo piano nella torre di via Tiziano ma andò ad abitarci soltanto qualche mese dopo perché così comprò con calma tutto il mobilio.
    La prima volta che si affacciò dal balcone rimase affascinata dal panorama e quando sentì i campanelli e vide quel gregge enorme di pecore si sentì gioire dalla meraviglia, tutt’intorno erano prati e prati e pecore e lei lì, sulla torre a guardare!

    Quando sono arrivata a San Polo le villette c’erano già, non c’era quel palazzetto dove adesso c’è l’Euro Spin, quello era tutto un prato e venivano a pascolare le pecore, vedevo questo gregge che non so da dove arrivava, quasi tutti i giorni d’estate pascolava, per me era una gioia vedere dalla finestra tutte queste pecore, con i campanelli che suonavano! Erano tutti campi, non c’era il centro Mela e neanche il centro Margherita. E non c’erano neanche le villette a schiera dietro la cascina Maggia, né il centro sportivo, era tutto prato, tutta campagna, alla cascina Maggia c’erano le mucche e solo un viottolo, una strada sterrata per arrivarci, e io mi ricordo che passavo di là per fare una passeggiata e mi divertivo a vedere queste mucche tutte là che mangiavano, era una cascina vera e propria. Non c’era neanche la chiesa, e andavo alla chiesa di via Duca degli Abruzzi. –
    Mentre lo racconta la meraviglia si accende nei suoi occhi scuri, forse le greggi le ricordavano l’infanzia, forse, girovaga come era stata, non pensava di trovare un paesaggio così in una città, una città industriale quale era ed è Brescia. Non se lo aspettava dopo tre anni vissuti in centro storico.
    Muove le mani, si tocca le orecchie, poi allarga le braccia come a voler abbracciare la visione di tutte quelle greggi e nel fare ciò un altro ricordo le torna alla mente. L’anno è il 1985, è inverno, è gennaio, metà gennaio, suona la sveglia, Emma si alza, si prepara per il lavoro, apre la finestra e scopre che il mondo è diventato tutto bianco. In strada ci sono novanta centimetri di neve, l’autobus non passa, sono un gruppetto di persone che l’attendono invano per andare al lavoro in centro, quando capiscono che non passerà si avviano a piedi in mezzo a tutta quella neve. Ricorda le chiacchiere e le risate, e le scivolate, la gioia anche di tutta quella neve.
    È arrivata una ragazzina, ci guarda, si siede al tavolo dietro il nostro, si alza, gesticola, è impaziente, capisco che vuol parlare con me, ma Emma le dà le spalle, non la vede, e continua a ridere ricordando la neve e le chiacchiere, quando finisce di ridere si fa improvvisamente seria e dice che nel quartiere manca un punto d’incontro, una piazza dove ritrovarsi:

    Mi piacerebbe cambiare qualcosa nel quartiere perché vedo che la gente ha voglia di stare insieme, però non c’è un punto di riferimento, una piazza, perché sì, c’è il parco, ma poche panchine, certo c’è la cascina Riscatto però le iniziative che fanno non sono molto pubblicizzate le vedi soltanto se vai vicino al cancello a leggere i fogli attaccati, dovrebbero metterli dove la gente passa. Poi giocano a carte e a me non piace, mi piace parlare con le persone così come stiamo facendo adesso io e te, perché solo parlando ci si conosce. –
    Anche Emma si accorge della ragazzina, si alza, le lascio il mio numero di telefono, ci salutiamo con il proposito di risentirci, la ragazza prende il suo posto: aspettava proprio me.

    Brescia, 2 marzo 2023

  • La casetta di Anna

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” di Lucia Marchitto


    Quando Anna sentì il Presidente della Repubblica Mattarella al Festival di Sanremo parlare dei settantacinque anni della Costituzione rimase un attimo stranita come se solo in quel momento realizzasse che lei aveva la stessa età, questo perché Anna i suoi anni li porta così leggeri sulle spalle da non sentirli o, forse, presa com’è, indaffarata come sempre, non ha tempo di pensare agli anni che passano. Neanche il suo corpo ha tempo per invecchiare preso come è a fare cose: curare casa, cane, gatti, fiori, soprattutto nipoti. Chi la guarda non direbbe mai che quella signora magra il giusto, alta e dritta, sobria nel vestire ha l’età che si è appena detto.
    Come era Anna quando comprò la casa in via Tiziano a San Polo?
    Era una giovane mamma lavoratrice che abitava in via Repubblica Argentina e pagava un affitto caro, molto caro, che comprò la casa prima ancora di essere costruita: era un disegno su carta. La si può immaginare china su un foglio insieme al marito valutandone il disegno, il giardino già lo immaginava e lo sistemava nella mente, così la cucina e il salotto e i bagni e le camere e nell’immaginare quel foglio si trasformava in:

    Una casetta tutta per noi! –
    Gli anni 70 stavano per finire e quella giovane famiglia firmava l’atto di acquisto della nuova casa. Tutto era cominciato per caso, la cugina di Anna andò a farsi i capelli dal suo parrucchiere, il Signor Piccini, che la mise al corrente del nuovo piano di urbanizzazione con tassi agevolati a San Polo e della sua intenzione di comprare casa, la cugina informò Anna e così tutte e tre le famiglie firmarono il contratto il primo di aprile e lei disse:

    – Madonna, magari è un pesce d’aprile! –
    La costruzione della casa durò circa due anni e questo permise loro di pagare la somma dovuta un poco alla volta, man mano che la costruzione andava avanti, per loro che non avevano molti risparmi fu un’ottima cosa. Avrebbero voluto anche fare delle modifiche durante i lavori ma il costruttore Biondo fece loro notare che, essendo edilizia agevolata, non si potevano apportare cambiamenti, le uniche cose che riuscirono a far modificare furono i bagni e i pavimenti in ceramica al posto della moquette.
    Era ottobre del 1980 quando la sua famiglia, insieme a quella della cugina e dei Piccini, vi andò ad abitare e non fu affatto una cosa facile. La prima delusione fu il garage costruito nel giardino che toglieva e toglie luce e aria alla casa, poi ci furono i disagi di vivere in mezzo ai cantieri, senza strade asfaltate e senza servizi. Dice Anna:

    Mio marito che lavorava a Milano doveva andare a piedi in mezzo al fango fino alla Volta per prendere l’autobus perché la macchina, l’unica che avevamo, serviva a me che lavoravo all’area industriale dove non arrivavano mezzi pubblici, inoltre, dovevo portare la bambina da mia madre che abitava in via San Zeno. –
    Le scuole non c’erano e la bambina andava all’asilo a Brescia, non c’era neanche la chiesa e si andava alla chiesetta della Maggia per le funzioni religiose.
    Si stringe un poco nelle spalle come se un gelo l’avvolgesse tutta:

    Mi ricordo che a Pasqua, siamo venuti qua in autunno, un freddo nelle case!!! Erano fredde, mamma mia!!! E in primavera eravamo tutti lì, a messa, davanti alla chiesetta della Maggia perché è talmente piccola che non ci si poteva entrare. –
    Prima della chiesa fu montato un capannone che frequentarono per molti anni, non c’erano negozi se non un negozietto nella cascina Aurora di via Raffaello, molto frequentato dalle casalinghe. Mancavano anche le linee telefoniche e un giorno, che nevicava tanto e la sua bambina era ammalata, dovette camminare in mezzo alla neve per raggiungere la cabina e chiamare il medico.
    Tira un sospiro di sollievo dicendo che tutti quei disagi passarono alla svelta e furono fortunati perché nella schiera c’erano altri quattro bambini con cui sua figlia subito fece amicizia e sebbene non frequentò mai le scuole del quartiere aveva una bella compagnia con cui giocava e andava all’oratorio. Sua figlia ha frequentato il quartiere, si è laureata, si è sposata ha due figli e vive e lavora a San Polo. Ed è attraverso la figlia che frequentarono l’oratorio e conobbero altre coppie con cui condivisero momenti felici e spensierati.
    Scoprì la bellezza di frequentare i parchi solo nel 1992 quando ebbe il primo cane, anche perché quando arrivò nel quartiere i parchi erano appena abbozzati, ora sono uno splendore, sono cresciuti gli alberi anche quelli vicino all’Alfa Acciai.

    L’alfa Acciai c’era già, siamo noi che siamo venuti qui quando sapevamo che l’acciaieria c’era già, per l’amor del cielo! All’inizio era molto peggio, quando siamo venuti ad abitare la mattina sui davanzali, che avevano infissi bianchi, si depositava un dito di nero e io lo toglievo tutte le mattine. Poi ci sono stati tanti ragazzi che si sono ammalati di leucemia e uno è morto, sicuramente è stato per l’Alfa, comunque adesso è migliorato molto perché io, almeno a casa mia, non trovo più quel nero, prima era proprio fuliggine nera, però non possiamo dare la colpa all’Alfa, l’Alfa c’era già, è di chi ha deciso di costruire un quartiere qui che ha sbagliato, secondo me, poi chi è venuto, come me ad abitare qui, lo ha fatto per una questione economica. Poi allora non c’era questa cultura dell’ambiente e dell’ecologia, non ci avevamo neanche fatto caso! Certo era un poco distante, però non ci avevamo neanche pensato, perché il problema non era così sentito come adesso. Certo poi il problema è venuto fuori subito perché si è cominciato a vedere questo fumo, questa fuliggine è chiaro che bene non faceva, poi tutti si sono attivati per fare in modo che mettessero i filtri, dopo dipende anche dal vento a volte va di qua a volte va di là, però ora tutti sanno che San Polo è cresciuto intorno all’Alfa. Poi chi lavorava lì diceva mi faccio la casa vicino. –
    Il silenzio si posa su noi due ed è nero di fuliggine.
    Si riscuote, le sorridono gli occhi mentre pensa a suo nipote e dice che proprio qualche giorno fa, le ha chiesto:

    Ma nonna a te piace la tua casa? –
    La sua risposta convinta è arrivata subito senza tentennamenti, la sua casetta le piace, soltanto ha un poco di dispiacere pensando che nel giardino c’è il garage, ci sono i muri alti e gli appartamenti della cooperativa “La famiglia” di fronte che tolgono un poco l’aria. Le piace anche per il fatto che qui ora ha tutto servizi, negozi e pure la metropolitana anche se un poco scomoda, però c’è, poi andando su con l’età ci si può muovere tranquillamente, è tutto in piano e ci sono ciclabili e pedonali belle spaziose. Ci sono alcuni che dicono che il quartiere è brutto ma secondo lei non è vero. In via Michelangelo ha conosciuto una persona che lavorava alla guardia di Finanza che aveva lì degli appartamenti, conosce anche la mamma di una vicina di casa di sua figlia che abita nella stessa torre ed è una persona normalissima. Insomma, nelle torri qui vicino non le pare ci siano problemi forse, dice, alla Tintoretto sbagliarono mettendoci insieme tutti quelli del Carmine con tutti i problemi che avevano. Non riesce neanche a capire perché si siano costruite le torri quando c’era tutto quello spazio disponibile.

    Potevano farle come le case a spina, quelle oltre i cavalcavia, in fondo sono case dignitose, hanno il loro giardinetto, anzi meglio delle nostre, hanno tanta bella aria e il parco davanti! –

    Anna si alza e mentre si avvia alla porta mi promette di portarmi una rivista del 1984 dove c’è un articolo interessante sul quartiere. La guardo mentre si incammina passando sotto la meravigliosa quercia che svetta i suoi rami nudi dietro il mio giardino e penso alla sua fame d’aria, al fatto che qui c’è un boschetto magnifico, che tra poco si aprirà alla primavera, la sento già nell’aria, in quel venticello gentile che si infila tra i rami spogli.

    Camminando tra boschetto e prati Anna e la sua cagnolina, ognuna curiosa a modo suo, ammireranno le violette, il tarassaco con il giallo del suo fiore, l’azzurro degli occhi della Madonna, le prime foglie sui rami degli olmi.
    Piena di bella aria tornerà alla sua casetta.

    Brescia, 1° marzo 2023

  • Giuseppe e il tempo

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” di Lucia Marchitto

    Giuseppe abita in una villetta a schiera in via Robusti che si trova, rispetto a via Tiziano, dall’altra parte di via San Polo, ricordo che c’era la torre del Tintoretto proprio di fronte alla schiera, era un posto un tantino sporco e quando lo guardavo pensavo alla miseria, mi sembrava che brulicasse intorno a quel palazzo una povertà cui non ero avvezza, sebbene io abbia vissuto un’infanzia priva di ricchezza. Ora che è stata demolita l’area è delimitata, è un grande spazio vuoto, eppure in quello spazio ancora persiste l’immagine della torre con gli oblò, ed è quella l’immagine che ha fatto nascere intorno al quartiere la narrazione di un posto invivibile, di una periferia degradata. Non solo la Tintoretto ma anche le altre quattro torri: Cimabue, Michelangelo, Raffaello, Tiziano. Nomi di grandi artisti, grandi pittori, tranne Tintoretto sono tutti del Rinascimento. Forse si voleva onorare i grandi conquistando il cielo? Per conquistare il cielo si è dimenticati della terra e dei suoi abitanti. Mi viene in mente una frase del mio professore di italiano delle medie: l’uomo per vivere ha bisogno di spazio. C’era spazio in quegli appartamenti?
    Quando vidi per la prima volta il quartiere pensai che chi aveva costruito avesse voluto dargli l’impronta, dire ecco ti trovi in un quartiere popolare, tutto quel cemento esposto, quei muri alti! Quando vidi le torri per la prima volta pensai alle piccionaie, svettano nel cielo dominando casette a schiera, a spina e a case alte: una rinascita senza bellezza.
    Con Giuseppe oggi ci incontriamo in biblioteca.
    Entriamo, salutiamo Luigi e saliamo al piano di sopra col passo sicuro di chi conosce bene il luogo, d’altra parte io e Giuseppe facciamo parte del gruppo di lettura che qui, ogni secondo mercoledì del mese, a tarda sera, si riunisce da anni.
    Eppure, appena entrata nella sala ho come l’impressione di essere in un posto nuovo: c’è qualcosa di diverso nell’essere qui, oggi, innanzitutto c’è la luce del giorno che cade dalla finestra, mi rendo conto che la luce illuminando questa sala, vissuta sempre di sera la rende improvvisamente sconosciuta e i libri sugli scaffali paiono in attesa, come noi due che aspettiamo le parole dell’una e le storie dell’altro.

    Ci togliamo i cappotti, ci sediamo di fronte, Giuseppe è un poco discosto dal tavolo, ha le gambe distese e appoggia la schiena alla sedia che è leggermente girata verso la finestra, tanto che riesco a vedere persino le scarpe, in una posa che appare rilassata e pronta all’ascolto più che al racconto. Tiro fuori quaderno, penna, schiaccio il pulsante del registratore, mi avvicino al tavolo lasciando spazio tra me e lo schienale della sedia, Giuseppe ha una voce flebile, a volte pare un sussurro, e io confido molto nel registratore per conservare al meglio le sue parole.

    Giuseppe nasce in un comune della provincia di Avellino, in Irpinia, nell’anno 1950, suo padre oltre a coltivare le terre era responsabile dell’acquedotto presso il comune. La madre, casalinga, come tutte le donne del paese faceva il pane in casa utilizzando il cresci, il lievito che passava di casa in casa.
    Il tempo al paese non era un’ossessione, dice Giuseppe:

    Una volta uno si alzava la mattina, all’alba, faceva quello che doveva fare e quando faceva notte se ne tornava a casa, non è che calcolasse il tempo, non calcolava quanto ci avesse messo a fare questo e quello. Adesso è tutto in rapporto col tempo, quanto ci hai messo a fare questo e quell’altro e la sera sei stressato, sei stanco.
    Il tempo lo hanno inventato gli uomini per sfruttare il lavoro degli altri uomini.
    Oggi siamo presi dalle nostre comodità, io dico sempre che da quando è venuta fuori la ricchezza diffusa con tutte le comodità ci ha fatto perdere il significato delle cose, forse è per questo che mi piace lavorare con le mani perché il lavoro manuale ti mette a contatto con la realtà. –
    Si diplomò maestro d’arte e iniziò a fare anche una supplenza in Irpinia, un caso, perché lì o eri raccomandato o non trovavi lavoro e fu per questo motivo che fece domande nelle scuole del Nord Italia e quando lo chiamarono a Brescia, per insegnare arte nelle scuole, accettò di buon grado perché conosceva la città in quanto vi aveva svolto il servizio militare.
    All’inizio trovò alloggio presso una piccola pensione per ragazzi del Sud in centro città, vicino al Coin, dopo si trasferì in via Ducco con un altro ragazzo, poi conobbe una ragazza, si sposò e andò ad abitare in via Tosoni, al terzo piano senza ascensore, dietro l’ospedale civile. Un giorno incontrò un amico che stava comprando casa a San Polo e gli disse:

    Perché non comprate pure voi così andiamo ad abitare vicino? –
    Il fatto di non avere soldi e che i tassi di interessi sul mutuo erano molto alti non impedì alla giovane coppia di iscriversi alla cooperativa che doveva costruire un condominio orizzontale con relativi giardinetti in via Robusti. I futuri inquilini si affidarono a un ingegnere e forse fu un bene, anche se ovviamente anche l’ingegnere volle la sua parte, perché ci furono persone che si affidarono a delle cooperative, pagarono e delle case non se ne seppe più niente.
    C’era anche la questione dell’Alfa Acciai che fu discussa tra i futuri acquirenti, ma il prezzo della casa era buono e ragionando sull’inquinamento si dedusse che questo non è che sta fermo, va dove lo spinge l’aria.
    Quando andò a vedere il posto c’era ancora il granturco, poi tutto fu lottizzato con la costruzione anche di due palazzoni e il posto si riempì di gente. Nella sua schiera, una ventina di proprietari erano impiegati del Sud. Chi si iscriveva alla Cooperativa doveva accettare le soluzioni che cadevano dall’alto e tutto venne fatto al risparmio. Costruirono anche due palazzoni: Tintoretto e Cimabue, il primo è stato abbattuto e al suo posto c’è un cumulo di terra.
    Giuseppe parla così lieve, con la testa un poco abbassata con il mento che sfiora il petto, se non fosse che ogni tanto si giri verso di me si potrebbe dire che stia facendo un monologo.
    Erano una giovane coppia in una casa nuova in cui subito si trovarono bene anche se avevano il mutuo da pagare. All’inizio il quartiere offriva solo le ACLI e la Chiesa che a lui non interessava anche se la frequentò giusto il tempo in cui la figlia fece la prima comunione e la cresima. Una cosa che ricorda e a cui partecipò fu la raccolta nel quartiere della carta, per lui era importante fare qualcosa per il quartiere, per renderlo migliore.
    Fa un mezzo sorriso quando dice:

    Si diceva che il quartiere fosse una specie di Bronx che io personalmente non ho vissuto. So che nel palazzone, quello che hanno abbattuto, c’era gente che andava per vedere lo spettacolo, io non sono mai andato su, forse sono uno dei pochi, la gente ci andava per vedere questi corridoi lunghi come se fosse una galera, secondo me era difficile viverci là dentro, poi ci portarono tutta la gente sfollata dal Carmine, tutte situazioni un po’ al limite, seguite dai servizi sociali, misero tutta questa gente tutta insieme, cosa pretendi di ottenere? Io non ho mai capito la politica che hanno fatto. Quando lo hanno buttato giù abbiamo visto lo spettacolo di come si fa a demolire un dinosauro, ora stanno portando via tutta quella montagna di sabbia e non so dove va a finire, sarebbe da rifiuti speciali. –
    Ora che è in pensione il quartiere lo gira in lungo e in largo con la bicicletta ed è l’unico quartiere che ha vissuto, prima nel condominio lavorava, tornava a casa, faceva un giro in città, però non è che vivesse il quartiere; invece, qua ha riferimenti più precisi. Poi qui ci sono tanti spazi verdi e Giuseppe appena può va in campagna, certe volte esce in bicicletta, costeggia i laghetti e si dirige verso Castenedolo; a volte arriva fino al lago di Garda. Spesso si aggrega a un gruppo di ciclisti che lui chiama “biciclettari” anche se i gruppi spesso lo deludono, forse perché a lui piace essere coinvolto personalmente. Dice:

    A me piace qualche cosa dove ci si coinvolge personalmente, cosa penso io, cosa pensi tu, scambiarsi le opinioni serve a capire con chi hai a che fare, ti rendi conto come tante persone sulla stessa cosa hanno idee diverse e anche se sbagliano, sbagliano a fin di bene, perché la loro storia è così, è come con il libro del mese, io mi sono stufato ogni tanto di non dire niente, così mi son detto ora questa cosa la dico e l’ho detta… insomma, il protagonista è uno sconfitto! –
    E poi sconfiniamo parlando di Dostoevskij, Tolstoj, Moravia, d’altra parte siamo in mezzo ai libri che lì, sugli scaffali ci guardano, sono stufi di aspettare, così spengo il registratore e continuiamo la conversazione che nulla ha a che vedere col tema di questa intervista.


    Brescia, 14 febbraio 2023

  • Rita – Noi donne abbiamo fatto l’Italia  

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” di Lucia Marchitto

    È presto, sono le nove del mattino, prendo la borsa, il quaderno, la penna e mi avvio per la strada asfaltata, arrivo dove c’era la cabina, attraverso, passo sotto il cavalcavia e sbuco nel parco dedicato a Fabrizio De André.

    Non c’è nessuno per strada.

    Pare un mondo addormentato.

    Suono il campanello, si affaccia, mi saluta invitandomi ad entrare, attraverso il giardino, entro nella piccola sala e Rita mi accoglie con un sorriso, mi fa accomodare, e io non riesco a distogliere lo sguardo da due grandi fotografie in bianco e nero appese alla parete, in una c’è il primo piano di una giovane donna che pare nell’atto di voltarsi verso chi entra accogliendo con un sorriso il visitatore, nell’altra ci sono quattro bambini di diverse altezze, sono in fila, dal più piccolo al più grande: pare una scala su cui gli occhi che guardano si spostano per arrivare al volto della madre che li mostra al mondo in una posa che ricorda un quadro d’artista.

    Ho la sensazione che il passato mi guardi e si racconti nella semplicità che si è svestita dei colori per mostrare l’essenziale. Appena sotto le fotografie c’è Rita.

    -          Sei tu? – dico indicando la prima foto.

    -          Sì, ora ho ottant’anni, e questa, dice indicando la seconda, è mia madre con noi figli. –

    Sottolinea che ha ottant’anni guardandomi dritta negli occhi come a dire: questa è la vera me stessa, quella nella foto non esiste più.

    Si siede. Inizia a parlare, con urgenza quasi, come se volesse dire che da quelle fotografie è passato un sacco di tempo, e che in quel tempo lei ha vissuto e continua a vivere non stando mai ferma, che la vita è movimento, azioni che si susseguono l’una all’altra incessantemente, che il tempo del racconto è ora, in questo momento, dentro questa stanza, dentro questa casa da cui è già uscita questa mattina per andare a comprare il pane, il suo rito quotidiano, e che ha già tutto il programma pronto per l’intera giornata. Sono pronti i sacchi da portare in discarica, sacchi che ha riempito con le “robe” che tanti lasciano vicino ai cassonetti.

    -          Sono arrivata nel quartiere il 1° luglio 1995. Abitavo in una casa in affitto a Villaggio Prealpino, poi il proprietario la mise in vendita e dovetti cercarmene un’altra. L’Aler mi propose un appartamento al secondo piano di San Polo. Quando sentii San Polo mi si rizzarono i capelli, poi al secondo piano voleva dire che c’era l’ascensore e io odio i condomini e soprattutto odio gli ascensori, tra l’altro avrei preferito spostarmi a San Bartolomeo perché era più vicino a dove abitavo. La Signora dell’Aler però mi fece presente che lì non c’era il teleriscaldamento e così accettai. Quando mi fu comunicato la via e il numero civico chiamai mia cugina che abitava e abita in via Tiziano, che, felice, mi venne a prendere e mi accompagnò, dapprima cercammo l’appartamento nel condominio che c’è qui in questa via e lo trovammo murato. La Signora poi mi spiegò che facevano in quel modo per evitare l’occupazione abusiva. Il fatto era che quello che mi avevano assegnato non era l’appartamento nel condominio ma questa casa! Quando vidi il giardino e scoprii che c’era anche il garage e la cantina fui veramente contenta. Una casetta tutta mia! Con la sala, un cucinino, il bagno, lo sgabuzzino, due camere sotto e un’altra al piano di sopra! Io ero sola perché mio figlio stava col mio ex marito in quel periodo. Siamo sempre andati d’accordo io e lui tant’è che andai anche al suo secondo matrimonio, e con la sua sposa c’è sempre stata una buona intesa, ora che lui è morto, al mio compleanno e a quello di mio figlio lei, la sua seconda moglie, ci porta sempre al ristorante. –

    Si illumina tutta quando pensa alla sorpresa di trovare questa casa, ha due occhi scuri, uno sguardo vispo, sopracciglia disegnate a matita. Poi inizia a parlare della sua attività lavorativa che fino ai trent’anni ha svolto in fabbrica e dopo ha fatto la cuoca nelle mense, spostandosi da un posto all’altro, la mandavano dove c’era bisogno, andò a Cremona, Mantova, Pavia per dire, non aveva paura di affrontare viaggi e nuovi ambienti di lavoro. Le piaceva guidare. Si alza, va verso la parete di fronte dove, a differenza dell’altra parete, ci sono solo fotografia a colori, me ne indica una che ritrae una donna sorridente al volante di una macchina.

    -          Anche questa sono io! – dice con enfasi.

    Mi guardo intorno, tutte le pareti sono piene di fotografie, mi mostra il figlio, la nuora, la nipote che le è così cara, ed è con orgoglio che mi mostra dei disegni fatti dalla sua nipotina, è così brava a disegnare tanto che ha vinto un premio e una borsa di studio partecipando a un concorso per piccoli artisti.

    Si siede di nuovo, quasi sotto la foto in bianco e nero, mi pare che passato e presente si incontrino concentrandosi nei suoi occhi, mi sembra che la giovane donna del ritratto si trasformi man mano che prosegue il racconto, fino a diventare la signora di ottant’anni che mi guarda con i suoi occhi vispi e la voce allegra.

    Sostiene che nel quartiere non va da nessuna parte se non a messa, al Margherita d’Este, nei negozi, e ogni tanto alla pizzeria L’incontro. Quando gira per il quartiere si ferma a chiacchierare con le persone che incontra ma non va mai a casa degli altri, perché sua madre le diceva “Mai andare a casa degli altri!” Fa delle belle passeggiate per i parchi, quando aveva il cane faceva anche quindici chilometri tutti i giorni, partendo dal parco Fabrizio De André arrivava alla Poliambulanza, percorreva via Duca Degli Abruzzi e tornava a casa. Nel pomeriggio insieme a una sua amica, andava all’Adrian Pam, proseguiva per Parco Ducos, via Gatti arrivando a Sant’Eufemia poi tornava indietro. Altre volte lei, la sua amica e i due cani andavano e tornavano a piedi fino al castello di Brescia.

    Un’ombra di tristezza appare sul suo viso, scuote un poco la testa nel dire:

    -          Sai quante camminate ho fatto col mio Dylan! Te lo ricordi sicuramente! Di quando è morto è meglio non parlarne sennò mi viene ancora il magone! Ma non ho mai pensato di prendere un altro cane, sai l’età, e poi costa anche un po’ di soldi. Sono pensionata e non mi dà niente nessuno e non chiedo niente a nessuno, vivo con la mia pensione! –

    Me la ricordo quando la incontravo con il cane, un labrador, le camminava a fianco senza guinzaglio, mai che abbaiasse o che si mettesse a correre, teneva il passo della padrona.

    Nel quartiere si è sempre trovata bene. Vicino al Gazebo, dove c’è il campo da bocce e gli orti vede sempre tanti ragazzi, non sa se combinano qualcosa, ma non le hanno mai dato fastidio. Ricorda che, quando ancora non c’era la metropolitana, dietro gli orti si riunivano dei drogati, avevano una panchina con un telo e, in parte, avevano messo un bidone dove raccoglievano la spazzatura, lei passando si fermava:

    -            Buongiorno signora, dicevano, anche se erano lì in sette o otto, mi fermavo a chiacchierare insieme, non c’è stato mai uno che mi abbia detto una parola fuori posto. Per quello io anche in giro non ho mai avuto problemi, sarà che io sono un tipo …! –

    Non finisce la frase, muove un poco le mani, si tocca il viso e forse per definire che tipo di persona è, racconta che la mattina, quando va a comprare il pane, se ha cinquanta centesimi che le avanzano li dà a un ragazzo che se ne sta spesso vicino al fornaio, anche al Signore di colore che ha il banchetto con le robe davanti all’Euro Spin dà qualche spicciolo e a Natale anche due o tre euro, ogni tanto gli porta la cioccolata, un pacchetto di biscotti, un po’ di frutta. Anche quando va al Margherita D’Este incontra un altro bisognoso a cui rivolge parole gentili e un poco di carità.

    -          C’è sempre un senzatetto con la barba, scuro, poverino, anziano, avrà … però non cerca niente a nessuno, allora certe volte, quando vado là mi siedo sulla panchina, lui si alza per farmi posto, io anche l’altro giorno gli ho detto:

    – Si sieda che c’è posto per tutti e due! –

    – Non vorrei disturbare! –

    – Ma si figuri! –

    Si è seduto e ci siamo messi a parlare. Ma io quando lo vedo fuori appoggiato al muro… ma io lo saluto sempre, gli dico due parole, anche se non cerca i soldi io glieli do. Poi c’è un altro sull’angolo. Però non posso dare a tutti, ho l’affitto, le bollette … io son poveretta, non è che posso a tutti … –

    Sospira, fa un gesto di impotenza mista a tristezza poi si riscuote e riprende a parlare veloce, veloce, le cose che ha da dire sono ancora tante, non vuole dimenticare niente, forse.

    Racconta che vicino ai cassonetti c’è sempre roba sparsa per terra, anche molta bella, a volte scarpe nuove, vestiti, persino coperte, lei divide gli indumenti mettendoli nei sacchi, quello scempio è fatto da gente che passa per strada. Una volta selezionata la roba porta quella brutta in discarica e quella bella a Leno dove c’è la Caritas, un grande capannone con tante lavatrici, ci sono le donne volontarie che selezionano i capi, attaccano i bottoni mancanti, li lavano, li stirano e li dispongono sugli scaffali o sugli attaccapanni. Quando si presenta qualcuno che ha bisogno gli chiedono cosa gli serve, vestiti coperte o scarpe. Gli chiedono che taglia ha, che colore preferisce, gli danno quello di cui ha bisogno senza esagerare perché sanno che se è troppa o non gli va bene la roba poi la buttano.

    -          Io porto le cose belle che trovo alla Caritas, giù là (vicino ai cassonetti) c’è roba bella che buttano, poi si lamentano, noi siamo abituate perché cresciute in un altro mondo, noi abbiamo fatto l‘Italia col nostro lavoro! Noi donne – dice con orgoglio – abbiamo fatto l’Italia! –

    Tira un sospiro, guarda me, poi in alto, sembra raccogliersi nel silenzio improvviso, dalla posizione in cui mi trovo vedo il suo viso e dietro di lei appena un poco più in alto la fotografia che la ritrae giovane e ho la sensazione che il passato mi guardi e tracci una linea col presente attraverso la sua voce. Si riscuote, mi guarda, guarda la stanza, dice che ha comprato la cucina nuova, si alza per mostrarmela, io spengo il registratore, la seguo, guardiamo la cucina poi mi fa vedere tutta la casa. In una stanzetta le pareti sono piene di fotografie, alcune in bianco e nero, di un formato piccolissimo, la ritraggono nel giorno del suo matrimonio, su un mobile sono allineati come soldatini i volti di numerose persone, lei li sfiora un poco con le dita, nominandoli, uno, a uno, dice:

    -        Sono tutti morti! – Eppure, a me sembrano tutti così vivi, tutti ancora lì a vivere attraverso il suo sguardo, sotto le carezze delle sue dita, nella voce che li chiama per nome.

    La saluto, esco con la promessa di tornare a trovarla.

    Il mondo nel frattempo si è svegliato, e io cammino in mezzo al verde del parco, mi accompagna la storia di Rita, le parole così leggere volano tra i rami, cinguettano come uccelli.

    Brescia, 6 febbraio 2023

  • Viaggio in Periferia – Claudia e i tramonti 

    da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” di Lucia Marchitto

    Claudia ha gli occhi neri con lunghe ciglia, un sorriso dolce e una voce fine, è alta, slanciata, è una donna di trentasei anni, ma per me che la conosco da quando è nata, anzi da prima, quando ancora era nella pancia, è ancora una ragazzina. Non è cambiata molto la sua bellezza nel tempo, non ha un filo di trucco, le olive nere dei suoi occhi incantano e la voce fine, direi melodiosa, ti ispira all’ascolto. Ha i capelli lunghi che spesso sposta dietro un orecchio per portarli tutti insieme sul lato opposto, inclinando un poco la testa, in un gesto che scopre il collo e fa venire in mente i quadri di Modigliani. Sembra illuminarsi tutta quando dice:

    -          Io amo il mio lavoro e i miei alunni! –

    Claudia è una maestra ed insegna qui, nel quartiere, qui dove ha frequentato la scuola elementare e le medie, dove ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza ed è tornata dopo aver girato il mondo, nello stesso condominio, allo stesso piano, nello stesso appartamento.

    -          È così comodo! – dice – Qui ho tutto ciò che mi serve! Persino l’ospedale della Poliambulanza! ci posso andare a piedi per dire, e a piedi o in bicicletta arrivo in centro città. E poi nel mio palazzo mi sento al sicuro, perché non sono mai sola. Ricordo quando è nato il mio secondo figlio, piangeva giorno e notte, ero distrutta, sull’orlo di una crisi di nervi, avevo bisogno di un’oretta di riposo, così lo presi in braccio, salii al piano di sopra, bussai alla porta, lo consegnai alla mia vicina che conosco da quando sono nata, e glielo affidai. So che in qualsiasi momento posso contare sui miei vicini. Ora, tra l’altro, si sono trasferiti al piano di sotto anche i miei genitori, così loro aiutano me e io aiuto loro. –

    Ogni angolo di strada racconta la sua vita, I parchi dove ha giocato da bambina e dove ora ci porta i suoi figli, il parco Ducos due che è cresciuto insieme a lei e a tutte le piante che stanno sotto e intorno al palazzo. Ricorda in particolare un bar dove si incontrava con gli amici per giocare a Flipper, le lunghe scorribande in bicicletta da via Brunelleschi passando per la stradina in mezzo ai campi che una volta tagliava dritta non essendoci ancora la metropolitana, costeggiava le scuole e il piccolo boschetto per sbucare nel Parco dei Popoli proseguendo poi verso la biblioteca attraversava il parco Fabrizio De André e arrivava qui in via Tiziano dove aveva gli amici, in un continuo andare e venire da via Brunelleschi a via Tiziano e viceversa.

    Ma se gli angoli di strada ne raccontano la vita la sua casa allarga l’orizzonte. Affacciandosi a una delle finestre vede il monte Maddalena: di giorno il verde dei boschi e di notte le luci e la tomba del cane che tanto affascina giovani e vecchi per la sua storia incerta.

    La casa si fa racconto e memoria quando le viene in mente il nonno che dalla Calabria giungeva a Brescia portando affetto e un sapore di mare e che, affacciandosi alla finestra di sera nel vedere le luci sulla montagna, diceva: – Mi pare un presepe! –

    Ora Claudia passeggia spesso nei campi da sola o con i suoi due bimbi e le capita, a volte, di osservare il Castello stagliarsi netto sulla collina del Cidneo, dice: Il nostro stupendo castello che mi ricorda i film di Fantaghirò! – Lo dice sorridendo con quel sorriso che luccica tra le pupille scure.

    La cosa che le piace di più è ammirare i tramonti dal balcone di casa insieme a sua cugina. Sull’orizzonte, oltre la Poliambulanza, lì dove terra e cielo si uniscono, tutto s’infiamma, a volte di rosso intenso, a volte di giallo oro, altre volte ancora, quando i raggi si infilano tra le nuvole piccole e leggere, in fila come pecorelle, il cielo appare rosato. Ogni tramonto è diverso ma la fascinazione è sempre la stessa.

    Stanno lì, insieme, sul balcone, in via Brunelleschi, a San Polo – Brescia, ad ammirare il tramonto con i rossi, i gialli, gli aranci che si sbiadiscono o si scuriscono, s’illuminano o si spengono piano. In quei tramonti ogni cosa si placa, il giorno che muore, la notte che avanza, il sogno e l’attesa di un’alba.

    Claudia è sul balcone ad ammirare i tramonti e ha dentro gli occhi la meraviglia.

    Brescia, 23 gennaio 2023