da “Viaggio in periferia San Polo si racconta” a cura di Lucia Marchitto
È presto, sono le nove del mattino, prendo la borsa, il quaderno, la penna e mi avvio per la strada asfaltata, arrivo dove c’era la cabina, attraverso, passo sotto il cavalcavia e sbuco nel parco dedicato a Fabrizio De André.
Non c’è nessuno per strada.
Pare un mondo addormentato.
Suono il campanello, si affaccia, mi saluta invitandomi ad entrare, attraverso il giardino, entro nella piccola sala e Rita mi accoglie con un sorriso, mi fa accomodare, e io non riesco a distogliere lo sguardo da due grandi fotografie in bianco e nero appese alla parete, in una c’è il primo piano di una giovane donna che pare nell’atto di voltarsi verso chi entra accogliendo con un sorriso il visitatore, nell’altra ci sono quattro bambini di diverse altezze, sono in fila, dal più piccolo al più grande: pare una scala su cui gli occhi che guardano si spostano per arrivare al volto della madre che li mostra al mondo in una posa che ricorda un quadro d’artista.
Ho la sensazione che il passato mi guardi e si racconti nella semplicità che si è svestita dei colori per mostrare l’essenziale. Appena sotto le fotografie c’è Rita.
- Sei tu? – dico indicando la prima foto.
- Sì, ora ho ottant’anni, e questa, dice indicando la seconda, è mia madre con noi figli. –
Sottolinea che ha ottant’anni guardandomi dritta negli occhi come a dire: questa è la vera me stessa, quella nella foto non esiste più.
Si siede. Inizia a parlare, con urgenza quasi, come se volesse dire che da quelle fotografie è passato un sacco di tempo, e che in quel tempo lei ha vissuto e continua a vivere non stando mai ferma, che la vita è movimento, azioni che si susseguono l’una all’altra incessantemente, che il tempo del racconto è ora, in questo momento, dentro questa stanza, dentro questa casa da cui è già uscita questa mattina per andare a comprare il pane, il suo rito quotidiano, e che ha già tutto il programma pronto per l’intera giornata. Sono pronti i sacchi da portare in discarica, sacchi che ha riempito con le “robe” che tanti lasciano vicino ai cassonetti.
- Sono arrivata nel quartiere il 1° luglio 1995. Abitavo in una casa in affitto a Villaggio Prealpino, poi il proprietario la mise in vendita e dovetti cercarmene un’altra. L’Aler mi propose un appartamento al secondo piano di San Polo. Quando sentii San Polo mi si rizzarono i capelli, poi al secondo piano voleva dire che c’era l’ascensore e io odio i condomini e soprattutto odio gli ascensori, tra l’altro avrei preferito spostarmi a San Bartolomeo perché era più vicino a dove abitavo. La Signora dell’Aler però mi fece presente che lì non c’era il teleriscaldamento e così accettai. Quando mi fu comunicato la via e il numero civico chiamai mia cugina che abitava e abita in via Tiziano, che, felice, mi venne a prendere e mi accompagnò, dapprima cercammo l’appartamento nel condominio che c’è qui in questa via e lo trovammo murato. La Signora poi mi spiegò che facevano in quel modo per evitare l’occupazione abusiva. Il fatto era che quello che mi avevano assegnato non era l’appartamento nel condominio ma questa casa! Quando vidi il giardino e scoprii che c’era anche il garage e la cantina fui veramente contenta. Una casetta tutta mia! Con la sala, un cucinino, il bagno, lo sgabuzzino, due camere sotto e un’altra al piano di sopra! Io ero sola perché mio figlio stava col mio ex marito in quel periodo. Siamo sempre andati d’accordo io e lui tant’è che andai anche al suo secondo matrimonio, e con la sua sposa c’è sempre stata una buona intesa, ora che lui è morto, al mio compleanno e a quello di mio figlio lei, la sua seconda moglie, ci porta sempre al ristorante. –
Si illumina tutta quando pensa alla sorpresa di trovare questa casa, ha due occhi scuri, uno sguardo vispo, sopracciglia disegnate a matita. Poi inizia a parlare della sua attività lavorativa che fino ai trent’anni ha svolto in fabbrica e dopo ha fatto la cuoca nelle mense, spostandosi da un posto all’altro, la mandavano dove c’era bisogno, andò a Cremona, Mantova, Pavia per dire, non aveva paura di affrontare viaggi e nuovi ambienti di lavoro. Le piaceva guidare. Si alza, va verso la parete di fronte dove, a differenza dell’altra parete, ci sono solo fotografia a colori, me ne indica una che ritrae una donna sorridente al volante di una macchina.
- Anche questa sono io! – dice con enfasi.
Mi guardo intorno, tutte le pareti sono piene di fotografie, mi mostra il figlio, la nuora, la nipote che le è così cara, ed è con orgoglio che mi mostra dei disegni fatti dalla sua nipotina, è così brava a disegnare tanto che ha vinto un premio e una borsa di studio partecipando a un concorso per piccoli artisti.
Si siede di nuovo, quasi sotto la foto in bianco e nero, mi pare che passato e presente si incontrino concentrandosi nei suoi occhi, mi sembra che la giovane donna del ritratto si trasformi man mano che prosegue il racconto, fino a diventare la signora di ottant’anni che mi guarda con i suoi occhi vispi e la voce allegra.
Sostiene che nel quartiere non va da nessuna parte se non a messa, al Margherita d’Este, nei negozi, e ogni tanto alla pizzeria L’incontro. Quando gira per il quartiere si ferma a chiacchierare con le persone che incontra ma non va mai a casa degli altri, perché sua madre le diceva “Mai andare a casa degli altri!” Fa delle belle passeggiate per i parchi, quando aveva il cane faceva anche quindici chilometri tutti i giorni, partendo dal parco Fabrizio De André arrivava alla Poliambulanza, percorreva via Duca Degli Abruzzi e tornava a casa. Nel pomeriggio insieme a una sua amica, andava all’Adrian Pam, proseguiva per Parco Ducos, via Gatti arrivando a Sant’Eufemia poi tornava indietro. Altre volte lei, la sua amica e i due cani andavano e tornavano a piedi fino al castello di Brescia.
Un’ombra di tristezza appare sul suo viso, scuote un poco la testa nel dire:
- Sai quante camminate ho fatto col mio Dylan! Te lo ricordi sicuramente! Di quando è morto è meglio non parlarne sennò mi viene ancora il magone! Ma non ho mai pensato di prendere un altro cane, sai l’età, e poi costa anche un po’ di soldi. Sono pensionata e non mi dà niente nessuno e non chiedo niente a nessuno, vivo con la mia pensione! –
Me la ricordo quando la incontravo con il cane, un labrador, le camminava a fianco senza guinzaglio, mai che abbaiasse o che si mettesse a correre, teneva il passo della padrona.
Nel quartiere si è sempre trovata bene. Vicino al Gazebo, dove c’è il campo da bocce e gli orti vede sempre tanti ragazzi, non sa se combinano qualcosa, ma non le hanno mai dato fastidio. Ricorda che, quando ancora non c’era la metropolitana, dietro gli orti si riunivano dei drogati, avevano una panchina con un telo e, in parte, avevano messo un bidone dove raccoglievano la spazzatura, lei passando si fermava:
- Buongiorno signora, dicevano, anche se erano lì in sette o otto, mi fermavo a chiacchierare insieme, non c’è stato mai uno che mi abbia detto una parola fuori posto. Per quello io anche in giro non ho mai avuto problemi, sarà che io sono un tipo …! –
Non finisce la frase, muove un poco le mani, si tocca il viso e forse per definire che tipo di persona è, racconta che la mattina, quando va a comprare il pane, se ha cinquanta centesimi che le avanzano li dà a un ragazzo che se ne sta spesso vicino al fornaio, anche al Signore di colore che ha il banchetto con le robe davanti all’Euro Spin dà qualche spicciolo e a Natale anche due o tre euro, ogni tanto gli porta la cioccolata, un pacchetto di biscotti, un po’ di frutta. Anche quando va al Margherita D’Este incontra un altro bisognoso a cui rivolge parole gentili e un poco di carità.
- C’è sempre un senzatetto con la barba, scuro, poverino, anziano, avrà … però non cerca niente a nessuno, allora certe volte, quando vado là mi siedo sulla panchina, lui si alza per farmi posto, io anche l’altro giorno gli ho detto:
– Si sieda che c’è posto per tutti e due! –
– Non vorrei disturbare! –
– Ma si figuri! –
Si è seduto e ci siamo messi a parlare. Ma io quando lo vedo fuori appoggiato al muro… ma io lo saluto sempre, gli dico due parole, anche se non cerca i soldi io glieli do. Poi c’è un altro sull’angolo. Però non posso dare a tutti, ho l’affitto, le bollette … io son poveretta, non è che posso a tutti … –
Sospira, fa un gesto di impotenza mista a tristezza poi si riscuote e riprende a parlare veloce, veloce, le cose che ha da dire sono ancora tante, non vuole dimenticare niente, forse.
Racconta che vicino ai cassonetti c’è sempre roba sparsa per terra, anche molta bella, a volte scarpe nuove, vestiti, persino coperte, lei divide gli indumenti mettendoli nei sacchi, quello scempio è fatto da gente che passa per strada. Una volta selezionata la roba porta quella brutta in discarica e quella bella a Leno dove c’è la Caritas, un grande capannone con tante lavatrici, ci sono le donne volontarie che selezionano i capi, attaccano i bottoni mancanti, li lavano, li stirano e li dispongono sugli scaffali o sugli attaccapanni. Quando si presenta qualcuno che ha bisogno gli chiedono cosa gli serve, vestiti coperte o scarpe. Gli chiedono che taglia ha, che colore preferisce, gli danno quello di cui ha bisogno senza esagerare perché sanno che se è troppa o non gli va bene la roba poi la buttano.
- Io porto le cose belle che trovo alla Caritas, giù là (vicino ai cassonetti) c’è roba bella che buttano, poi si lamentano, noi siamo abituate perché cresciute in un altro mondo, noi abbiamo fatto l‘Italia col nostro lavoro! Noi donne – dice con orgoglio – abbiamo fatto l’Italia! –
Tira un sospiro, guarda me, poi in alto, sembra raccogliersi nel silenzio improvviso, dalla posizione in cui mi trovo vedo il suo viso e dietro di lei appena un poco più in alto la fotografia che la ritrae giovane e ho la sensazione che il passato mi guardi e tracci una linea col presente attraverso la sua voce. Si riscuote, mi guarda, guarda la stanza, dice che ha comprato la cucina nuova, si alza per mostrarmela, io spengo il registratore, la seguo, guardiamo la cucina poi mi fa vedere tutta la casa. In una stanzetta le pareti sono piene di fotografie, alcune in bianco e nero, di un formato piccolissimo, la ritraggono nel giorno del suo matrimonio, su un mobile sono allineati come soldatini i volti di numerose persone, lei li sfiora un poco con le dita, nominandoli, uno, a uno, dice:
- Sono tutti morti! – Eppure, a me sembrano tutti così vivi, tutti ancora lì a vivere attraverso il suo sguardo, sotto le carezze delle sue dita, nella voce che li chiama per nome.
La saluto, esco con la promessa di tornare a trovarla.
Il mondo nel frattempo si è svegliato, e io cammino in mezzo al verde del parco, mi accompagna la storia di Rita, le parole così leggere volano tra i rami, cinguettano come uccelli.
Brescia, 6 febbraio 2023
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